Attenzione. Il video contiene immagini che potrebbero urtare la sensibilità di chi guarda. Quattro minuti. Un uomo con un cane. Una ragazza. Un’anziana signora. Le due del pomeriggio. Fermati. Non si ferma. Fermati. Non si ferma. Fermati. Alika Ogorchikwu non respira più.
È l’ultimo venerdì di luglio. A Civitanova Marche, Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo sta massacrando un uomo. Trentadue anni e qualche piccolo precedente penale, forse anche un’infermità mentale. L’altro, la persona che giace tra le sue mani, sotto il peso del suo corpo violento e inarrestabile, che si dimena ma non si divincola, ha sette anni in più, un figlio che lo aspetta a casa e l’incubo di un incidente che lo ha reso invalido. Vende accendini, qualche cianfrusaglia. Per sopravvivere chiede l’elemosina, pochi spiccioli per tirare avanti. Pochi spiccioli per non tornare indietro.
Indietro c’è la Nigeria, il Paese da cui è fuggito. Avanti c’è il vuoto di una commemorazione, il legno di una bara, una moglie che verserà fino all’ultima lacrima. Nel mezzo, c’è una violenza inaudita. La sua foto su tutti i giornali. Bella. È questa la parola che lo ha appena condannato a morte. Bella. È così che ha appellato quella donna lungo il corso principale della città marchigiana. Le ha chiesto dei soldi. Forse è stato insistente. Forse ha soltanto fame. Ancora non sa che la stampella che ora gli fa da sostegno è, in realtà, la prima arma del delitto. Il giovane che accompagna la donna gliel’ha appena rubata. Alika cade. Ferlazzo lo picchia. Un colpo. Un altro. E poi un altro ancora. Fa male questa stampella. Le gambe di Alika non riescono a trovare la forza. Le braccia di Ferlazzo, invece, non ne hanno mai avuta tanta. Colpiscono, bloccano, tramano. Portano le mani alla gola. Stringono. A Civitanova fa caldo. A Civitanova si muore.
Attenzione. Il video contiene immagini che potrebbero urtare la sensibilità di chi guarda. Quattro minuti. Un uomo con un cane. Una ragazza. Un’anziana signora. Le due del pomeriggio. Fermati. Non si ferma. Fermati. Non si ferma. Fermati. Alika Ogorchikwu non respira più.
Sul corso ci sono altre persone. Sul corso è un normale pomeriggio d’estate. Normale. Persino questa morte rischia di diventarlo. Normale. Più di qualcuno finisce per riprendere la scena. Lo smartphone. Lo schermo. Il filtro tra ciò che gli astanti riprendono e ciò a cui assistono. Forse, è il solo modo per non essere qui, per mettere distanza, per essere quello che guarda e non quello che interviene. E, infatti, tra la vita e la morte, tra Alika e Ferlazzo, non si intromette nessuno.
La psicologia sociale, tanto scomodata in queste ore, parla di effetto spettatore, bystander effect, una sorta di apatia che affligge l’individuo testimone di situazioni in cui un altro è in difficoltà. A teorizzare il fenomeno, descritto per la prima volta nel 1968 sulle pagine del Journal of Personality and Social Psychology, sono John Darley e Bibb Latané in seguito all’omicidio di Kitty Genovese, uccisa quattro anni prima a New York nell’indifferenza degli abitanti del Queens, il distretto in cui abitava. Il distretto a cui aveva implorato di aiutarla nel silenzio della notte.
Indifferenza. È questa la condanna che i giornali, i commentatori, la pubblica opinione stanno marchiando a fuoco sulla pelle di chi nel pomeriggio di venerdì era a Civitanova, di chi ha ripreso e non è intervenuto, di chi a Ferlazzo ha urlato fermati ma non lo ha fermato. Ed è una condanna giusta, condivisibile, un invito alla riflessione: cosa stiamo diventando? O, meglio, cosa siamo diventati?
A chi si domanda perché il gruppo non abbia reagito alla violenza del singolo, Darley e Latané rispondono che l’effetto spettatore consiste proprio in questo: più individui ci sono, meno propensione all’azione si riscontra; maggiore è la presenza altrui, minore è il sentimento individuale di responsabilità. Alla spicciola, potremmo parlare di una sorta di effetto scaricabarile, l’idea che un altro possa già essere intervenuto o stia lì lì per farlo. Chi a Civitanova c’era, però, ha offerto spiegazioni diverse. Ad accomunarle, tutte, la paura di essere aggrediti di conseguenza e un altro dito puntato: voi cosa avreste fatto?
Cosa avremmo fatto. Me lo chiedo da venerdì, da quando i filmati dell’aggressione ad Alika hanno cominciato a circolare online e in tv. E, come spesso accade, mi è tornato in mente Nicola Lagioia: È sempre: ti prego, fa’ che non succeda a me. E mai: ti prego, fa’ che non sia io a farlo. Cosa avremmo fatto è soltanto pura retorica.
La disumanizzazione dei contesti urbani ha radici profonde e antiche. E sebbene alcuni studi tendano a smentirlo o a smussarne i contorni, è difficile negare che l’effetto spettatore si è fatto comune, ancor di più oggi che spettatori lo siamo sempre, testimoni di vite social che crediamo di conoscere e, per questo, giudichiamo. Spesso certi persino di essere autorizzati ad aggredirle.
Le scene di violenza sulle piattaforme online sono ormai prassi, stimolano la curiosità più recondita e quello strano sadismo per il quale finiamo per rallentare quando a pochi metri da noi si è consumato un incidente. Vogliamo guardare. Dobbiamo guardare. Proprio come in quella celebre puntata di Black mirror, dove una donna rivive il suo linciaggio mentre i visitatori del sinistro e distopico parco divertimenti di esecuzioni capitali assistono e riprendono l’agonia. Noi, tutti, siamo quei visitatori. Siamo quelli con il cellulare. Quelli che riprendono la morte di Alika e quelli che vi assistono guardandola dai propri smartphone. È tutto un gioco di specchi e cerchi concentrici. È una scatola cinese, l’incubo nell’incubo: siamo il carnefice e siamo il giudice. Ma, nel caso di Alika, non ci sentiamo nemmeno un po’ la vittima.
In questi giorni di commento e dibattito si è parlato di tanto. Si è parlato delle molestie – poi smentite – che l’uomo avrebbe fatto alla compagna di Ferlazzo. Si è scomodato il catcalling, cercata qualche giustificazione – a volte sono insistenti, sono troppi, c’è la certezza della mancata pena. Ci si è sdegnati per coloro che hanno assistito e non sono intervenuti. Ma di Alika non si è mai parlato. In Alika non ci siamo mai riconosciuti: da un lato, un uomo di colore, povero, disabile; dall’altro, un bianco violento, geloso, irascibile. Noi e loro. Noi e gli altri. L’arena, il gladiatore, il pollice verso.
Non è un caso che in piazza, nella città marchigiana, sia scesa soltanto la comunità nigeriana, la gente di Alika, quella che in lui si è riconosciuta. Civitanova non si è fermata. L’Italia non si è fermata. A metà tra la compassione e l’indifferenza, il Paese a cui la vedova Ogorchikwu ha chiesto di non lasciarla sola, l’ha già abbandonata.
A tanti, guardando le immagini della morte di Alika sarà tornato in mente George Floyd. I can’t breathe. Non riesco a respirare. Please. Un po’ d’acqua. Please. Mama. Mi uccideranno. Otto minuti e cinquantatre secondi. Anche la sua agonia è un video circolato in rete, ma da quel video e da quella violenza è nata una rivoluzione.
Le città, da Minneapolis a New York, sono state invase da migliaia di manifestanti (anche bianchi) uniti in un unico grido: Black Lives Matter. Le vite nere contano. Persino in Italia li abbiamo emulati. Venerdì, però, non siamo riusciti a farlo. Forse, lo faremo in occasione dei funerali di Alika, ma sarà troppo tardi. Sarà tardi per non strumentalizzare, per non farne una passerella, per sentirci diversi. Migliori. Altri. Noi e loro. Quelli buoni. Quelli che non picchiano. Quelli che odiano gli indifferenti ma ai tanti Alika che abitano le nostre strade l’indifferenza è tutto ciò che regalano. Al più qualche spicciolo o un sonoro vaffanculo. Perché se non ci rubano il lavoro, ci rubano almeno l’elemosina.
Io non lo so se Alika è morto (anche) di razzismo, come qualcuno tenta di spiegare. Ma so che nei suoi anni in Italia ha rappresentato quello che in molti non tollerano più. L’uomo nero. L’uomo sul barcone. L’invasore. Per questo, come comunità, non sappiamo disertare il privilegio della complicità passiva, per dirla alla Angela Davis. So anche che qualcuno quella stampella gliel’avrebbe strappata volentieri dalle mani. Che quell’uomo sarebbe caduto comunque. E che in troppi non lo avrebbero aiutato a rialzarsi. Ecco perché non riesco a farmi giudice. A sentirmi differente. Ad autoassolvermi perché io non sono così. Ammettiamolo, lo siamo tutti, anche indirettamente. Siamo l’uomo con il cane e l’anziana signora. Siamo la ragazza. Il telefono che riprende. E siamo pure Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, forse non le sue braccia che stringono, ma la sua brutalità sì. La leggerezza con cui digitiamo, urliamo, trasformiamo parole in odio.
Cosa siamo sempre stati, dunque?
Attenzione. Il video contiene immagini che potrebbero urtare la sensibilità di chi guarda. Quattro minuti. Le due del pomeriggio. Fermati. Non si ferma. Fermati. Non si ferma. Fermati. Alika Ogorchikwu non respira più.
Una farsa nella tragedia. L’arena, il gladiatore, il pollice verso. Noi cosa avremmo fatto?