Verrà il giorno in cui dovremo scriverlo. Politici e giornalisti, cittadine e cittadini. Alfredo Cospito è morto. Lo scriveremo con sdegno, con orrore, con indifferenza, con soddisfazione. Lo scriveremo perché saremo tenuti a farlo. Rincorreremo il tempo, il tema del momento, la fine di una vita che si è consumata sotto i nostri occhi. Verrà il giorno, poi ne seguirà subito un altro. Alfredo Cospito è morto. Possiamo andare avanti.
C’è un uomo che dallo scorso ottobre non tocca cibo. C’è un uomo che dallo scorso ottobre si sta lasciando andare nelle mani dello Stato. La sua è una protesta. Una reazione non violenta. Un grido di ingiustizia. Una chiamata alla responsabilità. Se solo qualcuno rispondesse.
Rispondere, in Italia, è sempre una questione politica. E anche stavolta è su quel piano che la discussione si è spostata e nascosta. La palla in tribuna per non andare a rete. Eppure, mi hanno insegnato, quando si tratta di diritti umani non c’è ideologia che tenga. C’è solo un uomo che si lascia morire e noi che restiamo a guardare.
116. 117. 118. Quanto dura un giorno per chi ha fame. Come li conta, i giorni, l’uomo che non mangia. In progressione. Alla rovescia. Avanti. Indietro. Quanti ne sono trascorsi. Quanti ne restano. Quanto ancora possiamo spingere il piede sull’indifferenza.
Alfredo Cospito è l’unica persona detenuta al 41-bis per motivi politici. Una misura introdotta nell’ordinamento italiano all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio per rispondere all’insufficienza dell’ordinaria pena detentiva nel neutralizzare la pericolosità di detenuti che continuavano, dal carcere, a esercitare il loro ruolo di comando nelle associazioni criminali di appartenenza.
A lui, Cospito, sono attributi due episodi portati a termine e rivendicati dalla FAI, la Federazione Anarchica Informale: il primo risale al 2 giugno 2006, quando, senza vittime, furono fatti esplodere alcuni ordigni dinanzi all’ex caserma dei Carabinieri di Fossano (Cuneo); il secondo al 7 maggio 2012, quando a Genova fu gambizzato l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. Per l’agguato, subito rivendicato, furono arrestati Cospito (condannato a dieci anni e otto mesi) e Nicola Gai, tornato libero nel 2020 dopo uno sconto della pena.
È durante questa reclusione che arriva la condanna a vent’anni per i fatti di Fossano, bollati dapprima come tentata strage e poi come strage contro la sicurezza dello Stato. Una condanna che rischia di trasformarsi in ergastolo ostativo, la misura che non prevede benefici di legge e che non può essere abbreviata o convertita in pene alternative. È a maggio, invece, che risale il regime di 41-bis. Un fatto inedito per un anarchico.
I giudici motivano la scelta come necessaria per interrompere i legami che Cospito continuerebbe ad avere all’esterno. Incriminati sono alcuni scritti filtrati fuori dalle mura penitenziarie attraverso pubblicazioni autorizzate. Un bel controsenso. A lui, dicono, appartengono le riflessioni contenute nella Chiamata internazionale all’azione in solidarietà con Alfredo Cospito che invita a scontrarsi armi in pugno con il sistema. Eppure non bastano a farne un mandante.
Milano. Berlino. Roma. Torino. Valencia. Gli scontri si verificano, ma è Cospito a pagare il prezzo più alto. Da quasi quattro mesi, le condizioni di salute di Alfredo continuano a peggiorare. Per questo, sabato, è stato disposto il suo trasferimento nel reparto di medicina penitenziaria dell’ospedale San Paolo di Milano. L’ordine è arrivato direttamente dal Guardasigilli Carlo Nordio, colui che giovedì aveva negato la revoca del 41-bis. Ma non è tutto. Nelle stesse ore Piero Gaeta, il sostituto procuratore generale della Cassazione – la Corte che dovrà esprimersi il 24 febbraio sulla revoca di questa misura detentiva – ha chiesto di annullare il carcere duro per Cospito. Le toghe contro il Palazzo. Nordio contro Gaeta. La discussione si sposta, ancora, sul piano politico e istituzionale.
Strumentale, invece, lo è già adesso, con le opposizioni che vanno in visita da Alfredo – per incontri ancora da chiarire – e la maggioranza che inciampa nella sua incapacità di gestione con Dalmastro che passa a Donzelli conversazioni forse coperte da segreto (anche qui, conferme e smentite, nessuna chiarezza) e il secondo che le cita in Parlamento per dimostrare un qualche legame tra l’anarchico e i capimafia con lui in regime di 41-bis. I soli con cui Cospito avrebbe potuto parlare nel corso della sua reclusione. Questo perché il carcere duro è stato imposto a un uomo che non è l’esponente di un clan di stampo malavitoso.
Giorgia Meloni, dal suo canto, sceglie la bandiera dell’intransigenza – seppur con un profilo basso inedito per il personaggio – e una letterina a Il Corriere della Sera: È chiaro che […] ci troviamo […] davanti a […] uno scenario che richiede prudenza e cautela ma che deve vedere compatto lo Stato, in tutte le sue articolazioni e componenti. […] Perché non ci si debba domani guardare indietro e scoprire che, non comprendendo la gravità di quello che stava accadendo, abbiamo finito per essere tutti responsabili di un’escalation che può portarci ovunque. La palla lanciata in tribuna.
«Lo Stato non tratta» è forse la frase che più si ripete. Eppure, la ragionevolezza giuridica non rende mai debole uno Stato, scrive Antigone. E quanto ha ragione. Intervenire sul caso Cospito significa riportare il caso dentro un’area di ragionevolezza e umanità che è l’unica che deve riguardare le istituzioni. Non è un concetto difficile da capire. Non è giusto o sbagliato. È un passo verso un Paese che possa riconoscersi, davvero, nella Carta Costituzionale più bella del mondo. Altrimenti è solo inutile carta straccia. La legge del taglione che viola tutte le altre.
Perché un uomo non sia il suo crimine e lo Stato il suo aguzzino.
Seppur nella sua drammaticità, il caso Cospito è un’occasione importante per ridiscutere il regime di carcere duro. Per riflettere sulla sua estrema afflittività che spalanca enormi interrogativi sui limiti entro i quali possono essere compressi i diritti fondamentali della persona. Diritti la cui tutela costituisce un obbligo inderogabile anche dinanzi al più efferato dei criminali. Cosa che, tra l’altro, Alfredo Cospito non è. In caso contrario, vengono meno le basi della democrazia, di quel sentire comune che ha inteso superare l’occhio per occhio, dente per dente di romana memoria affinché, in qualche modo, potessimo sopravvivere. E, invece, nell’anno domini 2023, ancora, la cronaca racconta altro.
Racconta di uomini soli e di istituzioni che non sanno ascoltare. Di incontri, telefonate e corrispondenza soggetti a limitazioni. Di torture spacciate per condanne. I detenuti al 41-bis possono usufruire di un solo colloquio al mese della durata di un’ora, di appositi locali muniti di vetro a tutt’altezza e nessun contatto fisico o passaggio di oggetti. Le conversazioni sono sottoposte a registrazione video e audio. Anche le telefonate si limitano a una al mese di appena dieci minuti registrati, ma solo in sostituzione del colloquio e comunque dopo il primo semestre. Gli scambi epistolari, salvo quello con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia, sono sempre intercettati.
Un detenuto al 41-bis non può ricevere e inviare libri e riviste, non può ascoltare musica o radio, custodire foto. Può trascorrere, al massimo, due ore al di fuori della cella e incontrare fino a quattro detenuti che costituiscono il cosiddetto gruppo di socialità. Ma questo succede molto raramente. Chi vive a lungo in stato di carcere duro finisce con il non avere più voglia di uscire dalla cella, di incontrare o scambiare quattro chiacchiere con un altro. Come può tutto ciò non scontrarsi con i diritti fondamentali della persona, come può non essere un trattamento inumano e degradante? Come può rispondere al fine ultimo della pena, quello rieducativo e risocializzante?
Uno stato prolungato di isolamento, di stimoli, di contatto umano e visivo non può non avere conseguenze sul profilo della salute, anche psichica, non può non causare sofferenza. Il 41-bis annienta le persone.
«Mi era concessa un’ora di luce, una soltanto, nell’arco di un’intera giornata. La trascorrevo in quella scatola di cemento coperta da due fitte reti di metallo chiamato passeggio. Quindici passi per percorrerla in lungo, appena 5 in larghezza. All’inizio li contavo: camminavo in lungo con gli occhi chiusi sui miei pensieri e giravo a memoria. Trascorrevo le restanti 23 ore nel chiuso della cella sotto il freddo pallore di un neon. Un passo dalla branda al lavandino; due per la bilancetta (l’armadietto, ndr); a tre c’era la turca; a quattro sbattevo già il naso contro la parete. La finestra era una piccola fessura attaccata al soffitto con una rete dalle maglie così strette da trattenere anche l’aria» racconta Carmelo Gallico, che lo ha provato sulla sua pelle.
Alla domanda Che cosa fa durante la sua giornata un detenuto al 41-bis? si può rispondere solo con niente. Niente, come ciò che si può ricavare da questo braccio di ferro tra il governo e Alfredo Cospito, tra una misura che riduce l’uomo in polvere e la polvere che, forse, è tutto ciò che resta a un uomo al 41-bis.
Angela Davis scriveva: Il carcere è presente nella nostra vita e allo stesso tempo ne è assente. Riflettere su questa presenza-assenza significa iniziare a riconoscere il ruolo svolto dall’ideologia nel plasmare le nostre interazioni con l’ambiente sociale che ci circonda. Diamo per scontate le prigioni, ma spesso abbiamo paura di affrontare le realtà che producono.
Verrà il giorno in cui dovremo farlo. Verrà il giorno in cui dovremo scriverlo. Magari non sarà Alfredo Cospito. Sarà un altro. O un altro ancora. E, allora, saremo diventati il crimine e anche l’aguzzino. Saremo quell’uomo. Il braccio di ferro nel Paese della Trattativa. Verrà il giorno e ci troverà impreparati. Immutati nella nostra incapacità di elevare il concetto di giustizia a un qualcosa che non faccia rima con vendetta. Verrà il giorno e non avremo capito. Avremo perso un’altra occasione.
Perché un uomo non sia il suo crimine e lo Stato il suo aguzzino.