Si chiamava Alfonsina Morini ed era venuta al mondo alle tre di notte del 16 marzo 1891 a Fossamarcia, un buco fradicio, zeppo di larve e zanzare. A quei tempi, alle donne era riservata la modestia, il decoro, il lavoro nell’ombra, la fatica silenziosa come dono alla famiglia e preghiera a Dio. Alle donne, ma non a lei, il cui nome, dalle campagne del bolognese, passando per Milano, avrebbe fatto il Giro d’Italia.
È alla sua storia che Simona Baldelli dedica il suo ultimo libro dall’inconfondibile copertina blu, la storia di una pioniera della parificazione di genere in campo sportivo e non solo. Seconda di dieci figli di Carlo e Virgilia, dell’infanzia, Alfonsina ricordava soprattutto la mancanza di spazio e gli strilli dei bambini. Non solo fratelli e sorelle, ma anche bastardini che il padre e la madre prendevano su dai brefotrofi per avere il sussidio dell’amministrazione provinciale destinato a chi si occupava dei figli di nessuno. Bambini la cui morte sopravveniva presto, come in una sinistra routine, a causa della fame, delle scarse condizioni igieniche e di una salute già fragile. I morticini li chiamava Alfonsina, piccole anime che, anche dopo la loro scomparsa, lei continuava a vedere, a sentire intorno a sé, in ogni occasione. Testimoni, a volte anche giudici silenziosi, del suo essere diversa.
Sin da piccola, infatti, Alfonsina faticava a vestire i panni che la società si aspettava che indossasse, a comportarsi da femminuccia, ad accettare la provincia come luogo fisico e condizione della mente umana. Cominciò così a sfidare le regole, i primi divieti, a utilizzare – di notte, mentre a casa e in paese tutti dormivano – la bicicletta che il medico di Fossamarcia aveva ceduto a suo padre in cambio di qualche gallina rachitica. E fu lì, sul sellino di una vecchia due ruote, che diede il via alla sua rivoluzione.
Bicicletta, anche il nome era bello. Lo ripeté tante volte che la parola oltrepassò il significato originale e si trasformò in un marchingegno da favola. Era un cavallo magico, cui non serviva neppure la biada. Una macchina inesauribile, capace di scavalcare pianure e montagne. Con la biciletta, Alfonsina imparò la disobbedienza.
Pedalando, ribellandosi al volere paterno, disinteressandosi al pensiero comune, conobbe e affermò se stessa: come donna, come ciclista, come essere umano. Si innamorò pure. I genitori e i fratelli si vergognavano della strana di casa e non perdevano occasione per prenderla in giro e marcare la differenza fra lei e loro. Era matta, una mela marcia di cui ridere fra le mura di casa e provare imbarazzo in pubblico. E Alfonsina non ne poteva più. Così, ancora ragazzina, sposò Luigi Strada, il suo più grande amore, colui che le diede il cognome che ne segnò poi il cammino, un uomo buono con cui scappò altrove, inseguendo la sua passione.
Se fosse una favola, la storia si concluderebbe qui: con la giovane ribelle che corona il suo sogno d’amore. Quello che Simona Baldelli scrive, però, non è un racconto di fantasia, è il vissuto di una donna capace di cambiare il proprio destino nell’Italia già fascista e quello di molte altre a venire.
Era il 1924. A Milano, nella sede de La Gazzetta dello Sport, Armando Cougnet, allora patron del Giro d’Italia, era alle prese con l’organizzazione di un’edizione inedita della celebre manifestazione sportiva. Per la prima volta, infatti, la corsa non avrebbe visto campioni al via, le case stavano scioperando, il pubblico stava perdendo appeal: per questo, la corsa fu aperta agli isolati, ai ciclisti di ventura e – prima e unica volta – a una donna. Quella donna era lei, la regina della pedivella, Alfonsina Strada.
Le donne in bicicletta non interessano più. Fino a qualche tempo fa erano una novità, facevano scalpore. Suscitavano l’attenzione dei curiosi […] Adesso sono viste con fastidio. La gente ha voglia di pace, regole, mentre le cicliste portano un’aria di indisciplina e disordine. Una volgare disubbidienza da dimenticare.
Ma Alfonsina era così abituata a dare fastidio, a disobbedire, a infrangere qualsivoglia regola che fu lei stessa ad avanzare la propria candidatura, a convincere Cougnet a farla partecipare, sfidando gli uomini, la loro fisicità, le convenzioni e il buon costume: non vinse, ma concluse comunque la gara all’ombra della Madunina. Prima, però, le toccò superare cadute, imprevisti, scherni e la bicicletta senza manubrio. Era l’ottava tappa, quella da L’Aquila a Perugia, la città in cui Alfonsina era arrivata grazie all’ausilio di una scopa di selvaggina offertale da una donna lungo il percorso per consentirle di proseguire la corsa arrabattando una due ruote inedita eppur funzionale.
Prima della manifestazione organizzata da La Gazzetta, Alfonsina aveva già partecipato a due Giri di Lombardia: anche in quelle occasioni, avevano tentato di farla desistere in quanto donna ma lei, memore delle poche nozioni apprese a scuola, si era imposta rivendicando il significato della parola ciclisti, coloro che erano ammessi al torneo secondo statuto. Un plurale senza sesso o, meglio, comprensivo di entrambi i sessi che, quindi, non le impediva la partecipazione alle gare.
Tutti, da Girardengo a Binda, la conoscevano: alcuni la rispettavano, altri la deridevano, troppi non ne comprendevano la grandezza. Nemmeno la sua famiglia. I giornali, tanto pubblico, altrettanti sfidanti non le perdonarono mai l’affronto. L’unico a sostenerla, pedalata dopo pedalata, era il suo Luigi, ma nemmeno lui, adesso, era più in grado di vederla. Si era ammalato, rinchiuso in un ospedale psichiatrico nella sua solitudine: «Come sei bella sulla biciletta, Fonsina, non scendere mai», le aveva ripetuto sin dalla prima volta. Parole a cui lei si era aggrappata sempre per continuare a correre, e vincere, sfidando tutti: se stessa, sua madre, suo padre, i suoi fratelli, la società, persino il tempo che, sebbene sia passato, non riesce ancora a superarla.
Quella di Alfonsina Strada è un’impresa sportiva senza eguali nella storia del Paese che tuttavia non l’ha mai celebrata come avrebbe dovuto. Ecco che, allora, Simona Baldelli le rende omaggio attraverso un linguaggio semplice ma genuino, ricco di trasporto e sensibilità per una donna che ne avrebbe certamente meritata di più: Succedono tante cose brutte, signora Alfonsina. La gente ha bisogno di pensare ad altro, di credere ai sogni. Voi siete una cosa che prima non c’era, una fantasticheria buona, da far credere che può sopraggiungere l’impossibile. Un impossibile a cui, ancora oggi, abbiamo bisogno di far ritorno per credere che alle donne, alle Fonsine di tutto il mondo – anche di Italia – sia possibile correre. Libere, sulla bicicletta di un presente ancora tutto da scrivere.