Nove racconti compongono Chiromantica medica, la raccolta di Alessio Mosca edita da nottetempo. Nove storie a metà tra il fantastico e il reale, che si dipanano tra l’Abruzzo rurale e la Roma borghese, tra la periferia e la campagna dell’Agro Pontino. Una raccolta che sembra composta da leggende antiche, ancestrali, ritrovate da qualche ignaro editor poi finito in psichiatria, dopo essersi accorto che tra il perturbante e il mostruoso c’erano anche Rocco Siffredi e Vanna Marchi. L’autore, che già aveva pubblicato parte dei suoi racconti su riviste come Verde o TerraNullius, ha unito il folklore nostrano e la cultura pop moderna per creare un’epica della provincia italiana. Un incubo di giornaletti porno e libri di alchimia, televendite notturne e leggende rurali, in cui le divinità antiche vanno a spasso con cartomanti e pornostar.
Partiamo dalle basi: cos’è la chiromantica medica?
«Il titolo viene da un omonimo saggio del 1665 di un fisico ungherese, Meyens. Chiromantica medica era un trattato di iridologia, una pseudoscienza che sosteneva come, leggendo le iridi delle persone, si potesse prevedere il loro futuro. In queste teorie il fantastico si fonde al reale, la magia viene presa per vera. Così, nei racconti ho voluto ricreare questa atmosfera, questo cortocircuito in cui tutto ciò che è finzione può diventare reale: nell’esergo c’è un verso di Agrippa von Nettesheim su un testo di alchimia, ma anche Vanna Marchi, perché se cominciamo a credere alla magia, all’alchimia, al fantastico, allora diventa vera anche lei. Uno dei racconti, Uomini, assassini, tratta dei casi di cronaca nera italiani in cui i veggenti sono stati chiamati a investigare. Tutti i personaggi citati – Pina Auriemma, Gerard Croiset, Mario Allocchi – sono stati realmente coinvolti per indagare su omicidi e sparizioni, è proprio il fantastico che entra nella realtà. Questo è il cuore di Chiromantica medica: la finzione presa per verità».
Quindi la tua è una falsificazione, il tentativo di rendere verosimile l’assurdo. Mi viene subito in mente L’urlo di Pan, racconto in cui mi hai praticamente convinta che Rocco Siffredi sia il dio Pan.
«Quella è decisamente una reinvenzione della realtà. Sono partito da elementi veri, come può essere il mondo della pornografia, di Rocco Siffredi, e l’ho legato ai culti rurali dell’Abruzzo. Ho insinuato che i pastori fossero adoratori del dio Pan e l’ho provato attraverso falsi trattati di psichiatria e saggi inventati. In realtà, qualche studio minore a riguardo c’è davvero: è stato ipotizzato che i pastori potessero avere una sorta di predisposizione al disturbo bipolare, o quantomeno che avere il disturbo bipolare predisponesse al mestiere di pastore. Questo perché i cicli dell’umore – l’alternanza tra mania e depressione – andavano in accordo con la stagione del pascolo e della transumanza. L’dea, dunque, era che fossero soggetti lunatici che venivano colti all’improvviso da smanie sessuali irrefrenabili, proprio come dei satiri. Il loro sodalizio con bestie e capre rendeva l’associazione ai culti satireschi ancora più semplice, ed è vero che Rocco Siffredi è abruzzese. Siffredi insultò anche Cicciolina dicendo che puzzava perché si era fatta un bagno nel latte di capra – un tentativo di sviamento dalla sua natura caprina. Man mano, ho ricostruito un’indagine coerente che porta il lettore a credere a un presupposto assurdo: Siffredi è il dio dei satiri e della fertilità. Anche in I commissari e i loro boschi c’è un elemento assurdo: l’omicidio di un albero. Ho scritto questo racconto con accanto il manuale di medicina legale. E, ecco, la descrizione del corpo di quell’albero morto è assolutamente impossibile, è fantastica, ma il modo in cui è fatta l’autopsia è assolutamente verosimile».
Molta di questa falsificazione ruota attorno alla provincia, alle zone rurali dell’Abruzzo o dell’Agro Pontino. Cosa ti ha portato a gravitare lì?
«Ho avuto il fortissimo desiderio di fare epica nella provincia a partire dalla provincia stessa, come fanno gli autori statunitensi, in particolare del Sud: fra tutti, Cormac McCarthy o William Faulkner. Sono dei grandissimi narratori di epopee e penso che in Italia abbiamo uno sterminato immaginario in provincia che, però, viene poco utilizzato. La mia idea quindi era ripartire dal folklore italiano, dall’etnografia. De Martino è uno dei miei autori preferiti, e il folklore aiuta moltissimo in quest’opera di mistificazione del reale».
Per me c’è una necessità in quel senso. C’è la convinzione che la provincia sia un posto tranquillo, idilliaco. In realtà, è spesso estremamente cruda e violenta. Vengo dal Gargano e lì la mafia è pastorale, gran parte dei capimafia ha la masseria e le pecore, e quando fa a pezzi qualcuno lo dà da mangiare ai maiali. La mitologia rurale di quelle zone però mi ha sempre affascinato, forse per rendere la realtà più sopportabile. Credo che un’epica della provincia serva proprio a chi ci abita.
«Devo dire che in queste parole mi ci ritrovo molto, anche se mi rendo conto che io ho fatto il passaggio esattamente opposto. Sono nato a Roma e ho sempre vissuto a Roma. Vivendo in una grande città, da bambino, mi veniva raccontato un po’ questo mito, questo idillio della provincia, della realtà tranquilla e turistica del paesino di montagna. Però, quando andavo a trovare alcuni parenti nell’Agro Pontino, vedevo queste strade industriali sporche, questa campagna lurida con le prostitute. Queste storie di omicidi violentissimi, ecco, i pastori che danno in pasto gli uomini ai maiali è la cosa tipica che si può sentire e che fa rimanere sconvolti. Ho quindi scoperto questo contrasto, questo mondo violento e allo stesso tempo antichissimo, atavico, in cui il folklore e le storie di cronaca nera coesistevano. Poi per lavoro sono andato a vivere in Abruzzo, dove avevo parenti e radici. Ho vissuto nel pescarese, nel teatino, in cui ho toccato con mano questa realtà. Allo stesso tempo, ho notato che i problemi della periferia fanno sì che alcuni autori rinneghino la loro provenienza. Ci sono molti scrittori romani che, in verità, vengono dalla provincia, dal Centro e Sud Italia. E almeno io ho avuto l’impressione che neghino queste loro radici per concentrare invece la loro scrittura sul mondo della città e delle sue dinamiche borghesi».
Anche tu però spesso ti allontani dalla provincia e torni a Roma, quella borghese.
«Penso che questi racconti si possano dividere in due fasi precise. C’è una prima parte, chiamiamola lirico-naturalistica, in terza persona, in cui c’è un distacco sia dalla realtà sia dalla prima persona e da quello che c’è nel mondo borghese. Penso a I commissari e i loro boschi, ad Agro Pontino e L’urlo di Pan, o Gli esantemi e i lucumoni. Sono dei racconti in cui alla fine il reale entra molto poco. I successivi, invece, rappresentano una nuova fase in cui sono riuscito sia a usare la prima persona sia a parlare della borghesia, cosa che prima provavo ma mi era impossibile. Trovavo il periodo attuale, la borghesia attuale, molto difficile da descrivere. Invece poi casualmente ho pubblicato un racconto su Verde, si chiamava Io odio Giordano Tedoldi. Nasceva per omaggiare uno di quelli che, a mio parere è dei migliori autori viventi. Tedoldi ha scritto una raccolta di racconti che si chiama Io odio John Updike, in cui raccontava la realtà borghese di una Roma ricchissima, sofisticata, decadente a tratti onirica. Nel tentativo di fare una sorta di sua parodia è venuta fuori la prima persona, è uscita fuori la borghesia e quindi l’analisi dell’attualità. Su quella scia è nata poi una seconda fase di racconti: Io odio l’Ikea e La verità, vi prego, su TikTok. Invece Uomini, assassini risente tantissimo dell’influenza di Roberto Bolaño con I detective selvaggi. Penso che qualsiasi scrittore amante di Bolaño tenda a voler rifare I detective selvaggi nel suo tempo, trasformare i bar di Città del Messico in quelli di San Lorenzo».
C’è un racconto che sembra sospeso tra queste fasi: Cristo s’è fermato a Spinaceto. Anche qui c’è una realtà devastante, come quella di provincia, ma nella periferia di Roma. Non c’è una prima persona, ma è tutto estremamente reale. Anzi, il fantastico mi sembra quasi una menzogna nata per bilanciare la crudezza di quell’ambiente.
«Non posso fare a posteriori un’esegesi di questo racconto, non credo spetti all’autore. Però, posso parlare delle mie intenzioni. Questo scritto è quello in cui, più di tutti, ci sono elementi di vita vera. È legato alla mia adolescenza a Roma Sud, all’EUR. C’erano questi bori, ragazzi con i motorini, rissosi, che facevano uso di sostanze e avevano una vita violenta. Ripensandoci oggi, posso dire che effettivamente quei ragazzi, per quanto fossero al loro modo malvagi, per quanto le loro azioni fossero discutibili, erano innocenti. Non erano consapevoli che quello che facevano era male, erano loro stessi che erano fatti così, agivano spinti da pulsioni e da un contesto che in qualche modo li scagionava dai loro comportamenti. Sono stato sicuramente influenzato da Pasolini, però mi piaceva quest’idea di persone che compiono continue azioni terribili, ma in fondo sono innocenti. Il protagonista più di tutti incarna questa innocenza, e quella di tutto il suo gruppo. All’inizio si chiede se sta succedendo, perché sta cambiando. Ecco lui, acquisendo consapevolezza, essendo portatore di innocenza, è come se fosse un nuovo Cristo».
Cosa lega tutti questi racconti, un’idea, una sensazione?
«Sicuramente l’atmosfera, quella della Chiromantica medica. E, poi, l’indagine. C’è sempre una verità nascosta che deve venire fuori. In Uomini, assassini c’è il mistero di un killer e anche in I commissari e i loro boschi; poi sia in Io odio l’Ikea sia in La verità, vi prego, su TikTok c’è una verità che deve essere trovata, così come in L’urlo di Pan. L’idea che la realtà che abbiamo davanti ci nasconde qualcos’altro».
Credi che questa verità, nei tuoi racconti, venga trovata?
«Mai. La mia fissazione, la mia filosofia quando scrivo, è che non si deve mai scoprire la verità, mai scoprire chi è il colpevole. Parto da un mio terrore personale, quando sento parlare di un caso di cronaca nera, il fatto che la verità non venga mai alla luce è quello che a me spaventa, ed è come credo che sia la realtà. Nella realtà gli omicidi rimangono irrisolti, spesso e volentieri, quindi per rispecchiare il mondo reale, per dare a ciò che scrivo verosimiglianza, la verità non deve mai rivelarsi».
Io ho la paura opposta: di scoprire la verità. Temo che in essa ci sia qualcosa che mi riguarda. Che la faccia dell’assassino sia quella che ho visto ieri in ascensore, che sia familiare, una faccia qualsiasi, di una persona che non ha niente di mostruoso. E che potrebbe essere la mia, in un contesto diverso.
«Sì, io credo nell’opposto: la definizione di ansia è paura senza oggetto. Quando noi non abbiamo un oggetto, quando non abbiamo una faccia a cui attribuire il male, viviamo in uno stato di angoscia costante. Ed è quello che ho voluto restituire. Nel discorso che facevo prima rispetto a Cristo s’è fermato a Spinaceto, quindi rispetto a questi ragazzi in fondo innocenti, sono forse deviato dal lavoro che faccio. Non credo che le persone abbiano colpa, perché tutto quello che noi siamo, il nostro comportamento, il nostro modo di essere, è in qualche modo già determinato dalla nostra storia, i nostri geni, etc. Credo che la comprensione degli altri sia dovuta semplicemente da una conoscenza sempre più approfondita della loro storia e del modo di essere. Quindi, una volta che uno vive con questa idea che la colpa non esiste, a quel punto questo mondo è ancora più angosciante. Questa paura senza oggetto diventa una paura senza faccia, una paura di persone senza una vera colpa, senza qualcosa che possa redimerle o giustificarle. Più che il fatto che il nostro vicino sia una minaccia, o che la minaccia possa venire anche da noi stessi, credo che molto più spaventoso sia vivere senza sapere da dove venga il pericolo. Perché a quel punto tutto può essere una minaccia, e la minaccia può essere anche un’atmosfera. È questo che volevo cercare di fare, rendere l’atmosfera quanto più inquietante. È quello che fa anche Cormac McCarthy: fa parlare la natura e l’ambiente rispecchiando l’interiorità dei personaggi. Quando il nostro vicino compie un’azione malvagia sappiamo che è stato lui, ha una faccia, mentre quando non si sa chi è stato, andare in un luogo di violenza è ancora più angosciante. Anche una foresta può diventare minacciosa, i singoli alberi, le case che uno vede in un paesino tranquillo possono rinchiudere all’interno il male. Può risiedere all’interno di qualsiasi bar, cespuglio, ovunque. Non è un singolo essere colpevole, ma è l’intero ambiente a prendere delle sembianze maligne. È una sensazione di terrore che ho sentito leggendo i verbali di casi di cronaca nera. Per questioni di lavoro ne ho letti tantissimi e ho scoperto tutto il piccolo male che aleggia intorno alle persone. Anche se magari la singola persona non è responsabile di quel delitto, esce fuori un sottobosco fatto di prostitute, perversioni, di feticci. È come se, andando a scavare, tutti noi avessimo un segreto nascosto, un qualcosa di marcio dentro. Tutto l’ambiente è colpevole e nessuno è colpevole. È la sensazione che ho sentito leggendo le carte del processo del Mostro di Firenze: i compagni di merende forse potevano essere colpevoli o forse no, però sicuramente quel caso ha gettato luce su un mondo di perversioni e violenza. Avere una persona in carne e ossa contro cui puntare il dito è consolatorio e ci permette di dire: no, non è colpa mia, non è colpa loro, ma solo sua, è lui e solo lui la pecora nera del gruppo. Avere una faccia ci assolve, e io ho voluto fare l’opposto».
Spezzando – forse – l’inquietudine del discorso, voglio tornare a Rocco Siffredi. L’urlo di Pan mi ha fatto venire in mente quando venne nel mio paese e tutti impazzirono. Faceva un programma in cui veniva chiamato dalle coppie in crisi, e come il Messia arrivava ad aggiustare i loro problemi. Tutti lo inseguivano, gli chiedevano selfie e consigli di coppia, fu proprio la venuta del Cristo in provincia.
«Beh, per gli italiani è un mito. Ma io ci vedo anche una riflessione rispetto a com’è cambiato il ruolo del maschio e a com’è cambiata la pornografia. Un altro tema del libro è uno dei più grandi cambiamenti antropologici moderni, ovvero il crollo del patriarcato. È la perdita della virilità e del potere del maschio. La pornografia degli anni Novanta e Duemila non è quella di oggi. I pornostar sembravano davvero satiri, erano uomini imponenti con genitali sovradimensionati, che sopraffacevano queste donne bellissime. Invece ora uomini e donne sono egualmente partecipi durante l’atto sessuale e molto più delicati nei corpi. Gli uomini sono molto meno aggressivi, sono depilati e con i capelli tinti, molto più oggetti depersonalizzati».
Ne ha parlato Jessica Rizzo: non esiste più il culto del pornostar. Ormai tutti lo sono, o tutti potrebbero esserlo. D’altro canto, credi davvero che il patriarcato stia crollando? Per me sta solo diventando più subdolo, ormai sopraffa la donna tramite i video postati non consensualmente.
«Assolutamente, ma anche la nuova tecnologia. Il fatto che adesso basti un cellulare e un account su questi siti per postare un video ci rende tutti potenziali pornoattori, non c’è più quella distanza, quell’aura di divinità. Il problema che hai evidenziato è quello del revenge porn, ed è attualissimo. È uno strascico del patriarcato, certo, che sta prendendo altre forme, si sta trasformando. D’altro canto, però, credo che ci sia, almeno a livello psichico, nell’inconscio, una perdita completa di sicurezza e identità. È proprio il motivo di Io odio l’Ikea: riguarda queste categorie che stanno soffrendo sia il crollo del patriarcato sia il liberismo sessuale. Ormai siamo tutti in competizione tra noi per avere dei rapporti sessuali, perciò siamo costretti a farci i selfie, a mostrarci sempre belli, vincenti, a essere sempre simpatici. Ne parlava Michel Houellebecq in Estensione del dominio della lotta. Ne stanno risentendo certe ideologie che vorrebbero riproporre i valori tradizionali. I neofascisti vogliono riportare la società in un’epoca diversa, proprio perché in qualche modo non riescono a sostenere la contemporaneità. E, come loro, così hanno fatto anche i terroristi islamici. Non voglio semplificare dicendo che il terrorismo sia un problema di inconscio o un problema sessuale, però nell’ottica di finzione della Chiromantica medica pensavo fosse divertente associare questi fenomeni. Senza contare che c’è davvero una parte dell’estrema destra che sta abbracciando l’Islam perché crede che ormai con l’indebolimento del cristianesimo sia l’unica religione con dei valori puri. Lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, che è sempre stato un militante di destra, recentemente vi si è convertito, così come tanti intellettuali estremisti in Francia».
Tu l’hai raccontato con elementi surreali (neofascisti all’Ikea, burqa XL per uomini) ma in realtà questa connessione è molto reale. I siti dei redpillati pullulano di ideologie islamiche e sono noti gli incel che hanno compiuto atti terroristici.
«Esattamente, e mi sembrava il massimo della Chiromantica medica. Nello stress sessuale dovuto alla competizione che la società capitalistica ci porta, è innegabile che ci siano delle persone che rinunciano a competere, o che ne risentono più di altri. Ad esempio, i ragazzi di seconda generazione che vivono un conflitto tra la cultura di appartenenza dei genitori e la cultura consumistica occidentale, che promette loro qualcosa ma che non li integra allo stesso tempo. La frustrazione quindi li porta a ritirarsi nella cultura di origine dei loro genitori e a esasperarla. Esattamente come l’estrema destra, che si chiude in valori del passato, in contrasto con la realtà. Nello scrivere questi racconti mi sono estremamente divertito e, anche se ci sono delle riflessioni più o meno approfondite, tutto nasce dallo stare al bar con un amico e dire: Ti immagini se Rocco Siffredi è in verità il dio Pan? O se i fascisti per superare la competizione si vogliono far sottomettere dalle donne? Ecco, forse l’ironia si perde sotto la verosimiglianza, ma tutto parte da lì».
In realtà, io ho riso tanto durante questa lettura, ha funzionato.
«Beh, menomale. Negli anni ho cercato di fare una ricerca linguistica e stilistica ossessiva. C’è soprattutto nei racconti più lirici, come I commissari e i loro boschi. C’è la ricerca del divertimento, ma anche uno stile funzionale alla storia che voglio raccontare».
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