Ci sono pittori che trasformano il sole in una macchia gialla, ma ce ne sono altri che, con l’aiuto della loro arte e della loro intelligenza, trasformano una macchia gialla nel sole.
Alessio Arena non è un pittore, non di quelli armati di pennello e tavolozza, almeno. Eppure, le parole di Pablo Picasso, con quel riferimento all’arte e all’intelligenza, sembrano disegnarne il profilo, delinearne l’anima, colorarne note e versi. Con la sua voce e la sua penna, infatti, Alessio, nato e cresciuto a Napoli, ma di adozione spagnola, è capace di far tutto, anche di trasformare una macchia gialla nel sole. Proprio il sole, d’altro canto, è un elemento che fortemente gli appartiene, indicandone le radici e guidandone il cammino, a lui che del sud ha il ritmo e la malinconia, una terra che non è soltanto geografia, ma musica e passione.
Cantante, scrittore, musicista, traduttore, l’arte, per Arena, ha mille e più forme, una necessità da soddisfare lasciando le mani libere di accarezzare corde e sporcarsi di inchiostro, di raccontare storie che non vogliono essere taciute, di viaggiare per il mondo e portarselo dietro, in ognuna di esse. Come nel caso di Gilda Mignonette, la più celebre artista partenopea a New York, la Regina degli emigranti, andata via a cantare la sua musica dall’altra parte dell’oceano senza mai lasciare veramente casa, come Alessio, per poi raggiungerlo, un bel po’ di anni dopo, a Barcellona, permettendogli di raccontare di lei nelle pagine de La notte non vuole venire, l’ultimo romanzo del giovane autore edito da Fandango Libri.
Seguendone le tracce, in occasione del suo tour di presentazione qui in Italia, anche noi abbiamo incontrato e interrogato Arena per scoprire la sua di storia, la storia di un cittadino del mondo.
Alessio, benvenuto su Mar dei Sargassi. Oggi vogliamo rompere il ghiaccio con una domanda atipica per un’intervista: come stai?
«Pigliato dai turchi come quasi sempre, ma devo dire anche piuttosto contento di come è stato accolto il nuovo libro. Ho avuto subito la sensazione che questa storia sarebbe arrivata a lettori che prima non avevo.»
La notte non vuole venire è il titolo del tuo ultimo romanzo, edito da Fandango Libri e dedicato alla celebre cantante partenopea Gilda Mignonette. Perché proprio lei? Cosa ti ha colpito di questa grande artista?
«Era da tempo che i pochi dati biografici di Griselda Andreatini (questo, il vero nome della Mignonette) mi sembravano un romanzo già bell’e pronto. Ovviamente sono andato molto oltre: ho indagato non solo sulla sua vita, ma anche su quella delle persone che la seguirono nella sua parabola americana. Così è nato il personaggio di Esterina Malacarne, nemica intima di Gilda. La sua interprete e assistente negli Stati Uniti non poteva che essere la “voce” principale di questo romanzo che, mi sembra, è il più sinfonico e delicato tra quelli che ho scritto.»
Ancora oggi, Gilda è per tutti la Regina degli emigranti. Come lei, anche tu hai scelto, ormai molti anni fa, di vivere d’arte lontano dall’Italia. Quanto quel biglietto aereo ha segnato una svolta nella tua formazione e, soprattutto, nella tua carriera?
«Sicuramente, la scelta di vivere in un altro paese, ma non recidere il legame ombelicale con la propria terra e cercare di spingere anche da lontano la propria opera, è stato un grosso azzardo. Ma io sono andato via dall’Italia perché sentivo di dover crescere come artista altrove. Credevo che la distanza fosse il passo obbligato per cercare di approdare alla propria identità: comprendere dove e come si possono abitare musica e letteratura. Trovare lingua e suono in entrambe.»
Dall’Italia alla Spagna, senza dimenticare il Cile, la tua è una vita costantemente in viaggio e senza confini. Il Sud, tuttavia, resta per te la casa più accogliente, il nido sicuro in cui fare ritorno. C’è un luogo che senti più tuo o si potrebbe dire che è il mondo nella sua pienezza e contraddizione il palcoscenico più congeniale allo spirito d’artista che ti definisce?
«Mi sento a casa ovunque ci siano persone disposte e interessate al mio racconto. Essere un artista indipendente non è un lavoro per tutti. Con gli anni mi sembra sia quasi necessario viverlo come una specie di missione, per quanto la figura dell’artista romantico per investitura divina mi abbia sempre fatto ridere. Quello però era un concetto aristocratico. Il discorso è ben diverso per gli artisti la cui missione è stare, restare, vivere il mondo e darne una visione propria, tentando di pagare cibo e bollette con suddetta visione. Non ti sembra una sfida affascinante?»
Scrittore, traduttore, cantante, musicista: dalle note alla parola scritta, almeno tre sono gli accenti che definiscono il suono dei tuoi pensieri e delle tue emozioni. Credi che Alessio si racconti con più naturalezza in italiano, in spagnolo o in napoletano? In melodia o in prosa?
«Le lingue non sono mai state un problema per me, ma lo erano sempre per gli altri. A scuola non potevo parlare napoletano, perché le maestre mi dicevano di parlare bene, con i miei nonni non dovevo parlare italiano perché mica ero un milurdino io. Poi in Spagna, a seconda dei contesti, poteva diventare problematico esprimersi in catalano o in spagnolo. Per me la lingua è un gesto di apertura, di attenzione verso il prossimo. È lo stesso il canto. È lo stesso la parola scritta.»
Sei nato e cresciuto a Napoli ma il tuo domicilio è da più di un decennio a Barcellona. Cosa accomuna le due città? Cosa, invece, le distingue e, al contempo, le caratterizza?
«Ci sono infinite connessioni tra Napoli e Barcellona, sirene arenatesi su diverse sponde dello stesso mare. Ma cantano una canzone diversa. Se ci stai in mezzo, non capisci né l’una né l’altra. Napoli è stata maltrattata dalla storia, Barcellona ha avuto un destino un po’ più generoso. Di base, i catalani sono i nostri cugini facoltosi, più istruiti o forse solo più saccenti, più meticolosi, più delicati. Quando ho vissuto in Cile, nell’altro emisfero del mondo, spesso mi sono sentito meno distante da casa.»
A proposito di Barcellona, come ben sai, purtroppo dall’agosto del 2017 ai primi mesi di questo 2018, la città catalana è stata spesso al centro del dibattito socio-politico. Dal tragico attentato sulle Ramblas al referendum secessionista, infatti, se ne è parlato in continuazione per poi, come tipico dell’informazione odierna, mettere tutto a tacere. Ma cosa succede laggiù? Come ha reagito la popolazione all’ombra della Sagrada Familia a questi eventi così importanti e traumatici per la sua storia?
«Per tentare di spiegarti la situazione avremmo bisogno di non parlare di altro, ci sarebbe da spendere un’intera intervista. I fatti del tumultuoso ottobre scorso hanno reso ancora più profonda la ferita tra nazionalisti catalani e unionisti. Io spesso trovo fastidiosi i discorsi di entrambi. Perché quasi sempre si fanno estremi e, per questo, meno intelligenti.»
E l’Italia? Da alcune settimane, stai attraversando lo Stivale per promuovere il romanzo. Per te che non lo abiti più con costanza, credi che il paese sia cambiato?
«Tantissimo, come qualsiasi altro paese. Con le sue involuzioni e le sue, poche, evoluzioni. Ma non sono catastrofista come tanti altri. Il nostro è un paese lento, e lo sarebbe anche in un’ultima, definitiva, deriva politica e sociale.»
Ultima domanda: dove ti vedi tra dieci anni?
«Sempre a lavorare tra Spagna e Italia, ma forse non di stanza a Barcellona, che diventa un posto troppo competitivo proprio per la sua bellezza di città vivibile e all’avanguardia. Mi piacerebbe trasferirmi su un’isola. Ce ne sono due che amo particolarmente. Chi mi conosce saprebbe dove trovarmi.»