Il merito di Napoli, progetto editoriale di Rosario Bianco e Gianpasquale Greco, ha dato vita a una collana di dodici volumi premiando delle tesi di laurea allo scopo di trasformarle in testi divulgativi che guidassero alla scoperta di alcuni aspetti di Napoli che non sono ancora noti. Uno di questi studi porta la firma di Alessandra Trifari, disegnatrice, che ha presentato il suo libro lo scorso gennaio presso il Gran Caffè Gambrinus e alla quale ho posto alcune domande sulla pubblicazione.
Cosa pensi di questo progetto e com’è nato il tuo La fortuna di Caravaggio nell’Ottocento napoletano?
«Il mio volume è la tesi di laurea magistrale che ho discusso con il Prof. Tomaso Montanari. L’idea è nata dal corso di storia dell’arte moderna tenuto dal professore durante il quale sono rimasta estremamente incuriosita dallo strano percorso artistico di Caravaggio, la sua fama in vita, quella post mortem, l’assurdo oblio e la riscoperta. Inoltre, sono appassionata di arte dell’ultimo Ottocento. Mi interessava indagare le cause di quest’oblio e dimostrare come invece la “presenza” del pittore si facesse sentire in diversi artisti napoletani del XIX secolo. Dopo la discussione della tesi, ho sentito parlare del progetto Il Merito di Napoli all’interno delle conoscenze universitarie e mi ha subito colpito. La casa editrice, Rogiosi Editore, ha seriamente investito su di noi e credo che questa sia la dimostrazione più eclatante del valore dei nostri lavori. Inoltre, credo che ogni studente ambisca a non lasciare la propria sudata ricerca chiusa nel cassetto ma a divulgarla il più possibile.»
È tua intenzione approfondire ulteriormente le ricerche effettuate e, perché no, dedicarti a un seguito, un’altra pubblicazione?
«Per gli studi riguardanti La fortuna di Caravaggio credo di fermarmi qui ma mai dire mai, sono sempre alla ricerca di nuovi stimoli. Intanto, continuo a scrivere e sono prossima alla pubblicazione di un nuovo testo, stavolta un romanzo, ma comunque avente come tema principale l’arte e la storia dell’arte.»
Cos’è che ti ha colpito di più dell’arte del Caravaggio?
«Senza dubbio di Caravaggio mi colpisce tuttora la straordinaria e personalissima interpretazione del reale, dell’essere umano, delle emozioni, della luce, fino a quell’epoca assolutamente sconosciuti. Potrei riassumere il mio pensiero con la frase del critico inglese Roger Fry: Caravaggio è il primo artista a non procedere per evoluzione ma per rivoluzione. Ha dato il via a una nuova epoca.»
Secondo te, se la presenza di Caravaggio non fosse stata così evanescente, come la definisci nel tuo libro, avrebbe lasciato lo stesso un’impronta così profonda e suscitato così tanti curiosità, timore e rispetto?
«Gli artisti che ho trattato hanno avuto un rapporto con l’arte di Caravaggio perlopiù diretto, schietto, osservando i suoi quadri e non sentendo parlare troppo di lui o studiando dalle – poche e blande – fonti. È stata l’arte di Michelangelo Merisi a colpirli, non il suo mito. Forse, se avessero avuto modo di studiarlo anche come grande artista, sarebbero stati semplicemente più acculturati, ma è proprio l’aspetto del tutto involontario di questa influenza che ha interessato la mia ricerca.»
Caravaggio è stato in qualche modo messo da parte dalla società. Credi che questo fosse dovuto al fatto che la sua visione/interpretazione verso il sacro andasse controcorrente?
«Di sicuro, il suo modo di interpretare la religione andava contro ogni dettame dell’epoca, un’epoca – ricordiamolo – che era governata dalla Controriforma e che non lasciava spazio alla novità. Roberto Longhi diceva che allora non si chiedeva verità alla pittura ma nobiltà e devozione. Caravaggio aveva rivoluzionato l’arte non solo desacralizzando le figure sacre – ma tengo a precisare che non era affatto blasfemo, anzi, era molto legato a Dio, solo non gli importava la mediazione della Chiesa, un po’ come Michelangelo – ma anche traducendo in pittura ciò che della realtà non veniva allora considerato: il concetto di brutto, il naturalismo, il luminismo. Di certo, la sua reputazione non ha aiutato, anzi, ha contribuito a plasmare il mito del pittore maledetto, ma tutto è partito da una generale non accettazione delle novità dovuta ovviamente alla non conoscenza e alla rigidità della censura. Non è un caso che, pochi anni dopo, i grandi maestri abbiano carpito parecchio dal suo linguaggio, tuttavia si guardavano bene dal dirlo in giro perché non era conveniente.»
Credi che Vincenzo Gemito possa essere considerato il Caravaggio della scultura?
«Per certi versi potrebbe, anche se esistono delle differenze di pensiero dovute ovviamente agli influssi culturali dell’epoca. Gemito non affronta il tema religioso – ma quasi certamente l’avrebbe fatto se fosse vissuto nel Seicento, era una questione di committenze –, la sua resa è molto influenzata dalle varie Scuole d’arte nate in quel periodo e dall’Impressionismo. Ciò ha fatto sì che la sua scultura fosse in continua evoluzione. Ma il punto centrale, la ricerca assoluta del vero, è ciò che li accomuna di più senza ombra di dubbio.»
C’è qualche artista che, oggi, in un’arte che si è completamente rivoluzionata negli anni, possa essere considerato un prosecutore del Caravaggio?
«Ci sono moltissimi artisti odierni, famosi e non, che dipingono alla maniera di Caravaggio, dichiarandosi esplicitamente Caravaggeschi contemporanei. Mi vengono in mente Rocco Normanno e Michelangelo della Morte ma la lista, con le dovute ricerche, sarebbe lunghissima.»
Credi che Napoli sia ancora oggi un luogo rivoluzionario dove l’arte possa appartenere a tutti e dove tutti possano comprenderla?
«Ritengo che Napoli sia e sia sempre stata una città estremamente accogliente, aperta a nuovi stimoli e orizzonti che affronta la vita con occhio diverso, meno reazionario per certi versi.»
Visto che disegni, quanto il modo di disegnare degli artisti di cui hai parlato ha influenzato il tuo modo di fare arte?
«Per quanto ci siano state delle volte in cui ho tentato qualche esperimento, non c’è stata nessuna particolare influenza. Ho stile e tecniche decisamente diversi e molto gioca la richiesta dei committenti. Comunque sono più tipo da scrivania e riferimenti fotografici.»
Quanto la follia è importante nella vita di un artista? È un caso che due artisti su tre, Gemito e Mancini, abbiano nel tempo perso la ragione per mezzo dell’arte?
«La connessione genio-follia è un argomento su cui si dibatte ancora tantissimo e che mi ha sempre affascinato. Sono stati condotti vari studi scientifici a riguardo e molti hanno come risultato la possibile incapacità delle menti geniali di filtrare la realtà esterna. Nulla di accertato ma, personalmente, credo che nascere con una determinata vena artistica comporti il possedere una sensibilità nei confronti del mondo e della vita differente, che reagisce diversamente in base al contesto sociale.»