Qualche riflessione dopo l’abituale lettura della rassegna stampa dello scorso fine settimana è necessaria. Tra le solite notizie, infatti, spiccava, il 16 marzo, la commemorazione del rapimento di Aldo Moro e il massacro dei cinque uomini della scorta a distanza di quarantun anni. Un pensiero per chi quei giorni li ricorda e li ha vissuti con trepidazione o, per chi scrive, con emozione, avendo avuto il privilegio in più occasioni di incontrare e ascoltare il politico, lo statista, l’uomo lungimirante ucciso nel 1978.
Una notizia necessaria, la memoria di colui che della politica e del ruolo di chi la rappresenta ne aveva una concezione alta e rigorosa, lì dove la testimonianza anche del solo apparire esigeva il rispetto dei propri interlocutori ma anche di chi semplicemente gli capitava al cospetto. Ormai celebre il racconto della figlia Agnese a una scolaresca della scuola media inferiore: «Quando andavamo in spiaggia, papà indossava sempre la giacca e, quando gli chiedevo una spiegazione, lui mi rispondeva che essendo un rappresentante del popolo italiano doveva essere sempre dignitoso e presentabile».
Potranno gli amici e lettori facilmente immaginare dove si sia fermato di colpo il mio pensiero: alle decine di felpe per ogni occasione, alle giacche, ai giubbotti e foulard della Polizia di Stato, al distintivo della Lega all’occhiello della giacca utilizzata in rare occasioni. Ma limitare il raffronto – del tutto impossibile e gravemente offensivo alla memoria dello statista – all’aspetto unicamente esteriore rischierebbe di minimizzare ogni discorso che ne sottovaluterebbe la gravità dei contenuti, delle espressioni utilizzate, delle continue provocazioni sprezzanti nei confronti di chiunque non sia allineato alla filosofia dell’odio e della denigrazione.
Foto, continue apparizioni sui social tra panini e patatine e altri atteggiamenti più consoni per un menù di McDonald’s o Burger King, video quotidiani con il proprio faccione in primo piano e le solite invettive, spot e annunci a effetto per gli ingenui creduloni: sarebbe riduttivo e ingeneroso indicare nel solo Ministro Matteo Salvini l’emblema del contrario di qualsiasi, seppur minima, regola comportamentale decente dovuta da parte di un uomo pubblico, di un rappresentante delle istituzioni, che ha avuto nel suo maestro il leader della coalizione di centrodestra Silvio Berlusconi, certo sempre elegante, ma comunque uno dei massimi esponenti della politica-spettacolo e goduriosa, dagli atteggiamenti molto discutibili in incontri internazionali che hanno fatto il giro del mondo tra foto tra capi di Stato con il segno delle corna alle spalle come studenti in gita scolastica.
Basti pensare ai vari Razzi, Scilipoti, Cesaro, gli impresentabili per curriculum, indagati o condannati come il Senatore Bossi – che, grazie al Matteo nazionale, siede oggi nei banchi del Senato della Repubblica – e tutti quei politici salvati dai veti incrociati da una giunta parlamentare per le autorizzazioni che potrebbe anche essere del tutto eliminata per la sua inutilità.
Moro così si espresse nel marzo del 1977 alla Camera in un discorso sullo scandalo Lockheed: «Non basta dire, per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite, noi siamo dei politici e la cosa più appropriata e garantita che noi possiamo fare è lasciare libero corso alla giustizia, è fare in modo che un giudice, finalmente un vero giudice, possa emettere il suo verdetto».
Va detto che i tempi del rigore dello statista ammazzato e fatto trovare come un animale da macello nel bagagliaio di una Renault rossa cinquantacinque giorni dopo sono lontani e citarne la figura ponendola al confronto con una classe politica mediocre imbarazza non poco pur ammettendo che la mediocrità è stata sempre ben presente in Parlamento. Figure di leader di partito e rappresentanti delle massime istituzioni di così basso profilo che dominano la scena da oltre un trentennio, però, ritengo non abbiano eguali nella recente storia repubblicana.
Gli interventi alla Camera e al Senato della gentildonna Taverna o nel passato prossimo della nipote del Duce, quella tutta famiglia e chiesa, delle gaffes di Ministri come Maria Stella Gelmini con il tunnel che collegava il CERN di Ginevra con i laboratori del Gran Sasso, l’ex Ministro Claudio Scajola – Quella casa mi è stata pagata a mia insaputa – e, più recentemente, Di Battista nel corso del dibattito in Aula sulla Libia che ha definito l’ex Presidente della Repubblica francese Francois Hollande Premio Nobel, il mitico Ministro Toninelli e il suo tunnel del Brennero o, per completare, Pinochet in Venezuela del Ministro Di Maio. Gaffes, congiuntivi sbagliati, affermazioni fuori luogo, arroganza e volgarità nelle espressioni, mancanza di rispetto istituzionale, tutti sono ormai consuetudine, come nel caso del Presidente della Regione Campania che non riesce più a distinguere tra i suoi interlocutori se Assessore Comunale, Sindaco della terza città del Paese o il proprio autista.
Mi piace chiudere, quindi, ricordando ancora Aldo Moro attraverso ciò che ha scritto la figlia Agnese: Essere professore era ciò che amava di più e a cui non ha mai voluto rinunciare perché per lui i giovani sono il meglio di noi e non si può fare nulla senza un dialogo serrato con loro; era una persona seria, studiosa, buffa, appassionata, che aveva un grande rispetto per gli italiani e che ha fatto cose impopolari. Era un uomo, con un profondo senso della storia e di grande fede. Una fede poco raccontata, poco sbandierata e politicizzata, ma vissuta con intensità.