Chissà se è un caso che il primo giorno di primavera abbia dato i natali ad Alda Merini, la poetessa più amata d’Italia, venuta alla luce il 21 marzo del 1931. Lo scoppio della stagione che, da sempre, ispira gli artisti, da novant’anni è sinonimo di poesia, con i versi dell’autrice milanese che riecheggiano nella memoria degli appassionati.
La vita di Alda Merini è stata scandita dal ritmo dei propri componimenti, una sorta di fuoco sacro che neppure i numerosi ricoveri presso l’ospedale psichiatrico Paolo Pini Affori di Milano hanno mai affievolito. Oltre alla poesia, però, il filo che l’ha tenuta legata alla vita è rappresentato dalle sue quattro figlie.
Della poetessa milanese, Emanuela Carniti è la primogenita. Da quando la madre, il 1 novembre del 2009, è venuta a mancare, non ha mai smesso di raccontarla. Due anni fa, per la casa editrice Manni ha pubblicato un libro intitolato Alda Merini, mia madre, duecento pagine dedicate alla vita di casa, agli aspetti più profondi di una donna che dal mondo intero era percepita come una sorta di divinità, ma che per lei e le sue sorelle era, innanzitutto, un genitore duro, talvolta poco empatico, tuttavia, non privo di grandi dimostrazioni di affetto e allegria.
In occasione del novantesimo anniversario dalla nascita di Alda Merini, l’emozione si fa ricordo, riaffiora nel corso di una lunga, emozionante chiacchierata che abbiamo tenuto con Emanuela. Uno scambio prezioso di aneddoti che è anche molto altro, è condivisione, è poesia.
Emanuela Carniti, credo sia interessante aprire quest’intervista partendo da una dimensione molto intima, ossia il rapporto madre-figlia, sia per quanto riguarda il legame che Alda Merini aveva con quella che è stata Sua nonna, una donna molto dura che non la incitava certamente alla letteratura, sia raccontandoci che madre è stata verso di Lei e le Sue sorelle.
«È stata una madre dura, talvolta anche poco comprensiva verso le esigenze mie e delle mie sorelle, è una durezza che ci tramandiamo. Faticava un po’ quando doveva immedesimarsi nei panni altrui, aveva bisogno di proiettare sugli altri quelle che erano le sue necessità, cosa che fanno molti genitori, a dire il vero. Ne ho conosciuti tanti che hanno inciso in maniera negativa sulla vita dei figli, spingendoli verso cose che non erano nelle loro corde, e lei faceva fatica ad assecondare i miei desideri. Mi diceva di sì quando una cosa piaceva anche a lei. Era molto autocentrata».
Quattro figlie e, purtroppo, numerosi ricoveri di natura psichiatrica. La sensazione è che, in quello che era il suo ambiente familiare, Alda Merini non abbia lasciato spazio al dolore e al risentimento, ma soltanto all’amore. La poesia e le sue figlie erano i fili che la tenevano legata alla vita?
«I suoi ricoveri duravano una settimana, al più dieci giorni. Il problema, per ciò che riguarda la psichiatria – ho lavorato nel settore –, è che si dovrebbe ricorrere all’ospedalizzazione solo come ultima spiaggia, sicché questa crea, di fatto, un momento di sollievo, almeno nella prima fase. Funge quasi da antistress, sia per la persona che per i suoi familiari, poi, però, instaura nel paziente una sorta di dipendenza che lo deresponsabilizza. L’ospedale psichiatrico era molto più di così, il degente veniva trattato come un oggetto, come una persona senza capacità di scelta o di alcuna razionalità. Una volta che entravi lì, tendevi a tornarci, anche perché ti rendeva la vita fuori ancora più difficile. Rientrare a casa poteva significare sentirsi stremato, incapace di farcela da solo. Mamma era molto legata a noi, era poco empatica ma sentiva la maternità come appagamento e ricerca di una dimensione femminile. Forse riusciva a comunicare poco il suo affetto perché aveva quel tipo di problemi. Il modo che adoperava per far sentire la sua presenza consisteva nel darci delle cose materiali, farci dei regali, nonostante le evidenti ristrettezze economiche. Mi capitava raramente di chiederle aiuto, al contrario sentivo il dovere di occuparmene. Quelle due o tre volte che ho avuto bisogno emotivamente di lei, ho sentito la sua fatica a dirmi delle cose rassicuranti, chissà, forse non c’era niente da dire o da fare. Mi ascoltava, poi rispondeva: “Domani ti mando centomila lire”. Le risultava complicato dimostrare diversamente il suo aspetto materno. Oltre la poesia, che era la molla interiore a cui non poteva sottrarsi perché più forte di lei, c’eravamo noi, le sue figlie. Però dopo, molto dopo. Nel mezzo c’era anche la malattia. Ha fatto del suo meglio come mamma, è stata molto importante, ma – almeno per me – non sufficiente a livello emotivo».
Ha voglia di raccontarci un aneddoto casalingo che ne dipinga il lato umano? Qualcosa che non si legge sulle biografie, come della sua ironia, ad esempio.
«Era capace di essere molto ironica. Riusciva a passare rapidamente dalla disperazione più cupa a ridere. A volte mi telefonava perché era scomparso qualcuno che conosceva o aveva saputo qualcosa di grave che l’aveva sconvolta, piangendo disperata, dicendomi anche che non riusciva più a scrivere, come se le fosse venuto a mancare quel fuoco interiore. Eppure, non ha mai smesso di scrivere, ha scritto tutti i giorni della sua vita, mi leggeva sempre qualcosa di nuovo. Quando aveva sfogato la sua afflizione, mi diceva: “Ti ho raccontato l’ultima barzelletta?”. Era molto brava sia a ricordarle che a raccontarle. Delle volte rideva per cose che, viste da fuori, non avevano apparentemente motivo di scatenare tanto divertimento. Lo faccio anche io. Ricordo una notte, avrò avuto sui dodici, tredici anni, ero a casa, di ritorno dal collegio, la sentivo ridere, era mattina presto, all’alba. Mi svegliai: “Mamma cos’hai da ridere?” Comprava dei settimanali, Oggi, Grand Hotel, Stop, giornali di gossip. Tra una lacrima e l’altra, mi fece: “Leggi qui: Il conte Calvi al Congo”. Quell’accostamento di lettere le aveva scatenato una ridarella che comunicò anche a me (ride tutt’oggi – nda), rideva di questo titolo che non voleva dire niente, ma era incontenibile. Il riso è comunicativo. Mia mamma era capace di ridere tanto per delle cose semplici».
Alda Merini ha vissuto in anni particolari. La legge Basaglia ha, poi, messo fine alle atrocità di cui erano capaci i manicomi. Crede che Sua madre – come tante altre donne – si sia sentita punita per la libertà che aveva bisogno di esprimere?
«Poco ma sicuro. Il manicomio era zeppo di giovani che entravano semplicemente perché più irruenti dei propri fratelli, considerati ingestibili e, invece, erano solo più vivaci, a volte persino più intelligenti. Tanti si ribellavano a delle regole troppo rigide per loro e, quando queste situazioni generavano delle violenze in famiglia, allora venivano ricoverati e, a volte, finivano all’ombra. Se nessuno si faceva vivo nei mesi a venire, dall’ospedale psichiatrico non uscivano più. Le cure rintronavano, si facevano gli elettroshock, i pazienti li riducevano a delle larve, cancellavano loro la volontà. Per chi aveva dei parenti di cui voleva disfarsi, quello era il modo per farlo. Inoltre, gli infermieri psichiatrici erano dei secondini fatti e finiti, per loro il malato era qualcosa da tenere a freno con tutti i mezzi possibili. Picchiavano. Come dice, però, era una condizione che riguardava soprattutto le donne. Tra quelle mura nascevano tanti bambini, siccome tra le brutture delle istituzioni semicarcerarie c’erano violenze e abusi perpetrati da parte di chi, invece, avrebbe dovuto prendersi cura di quelle figlie o madri che avevano solo osato un’insubordinazione alla figura patriarcale».
Nel Suo libro Alda Merini, mia madre attribuisce alla poetessa una frase: Il mio isolamento è prettamente poetico, mi piace stare sola. Però, al tempo stesso diceva: è doveroso bussare alle porte di chi è solo.
«La mamma chiedeva molte attenzioni che, però, dovevano esserle rivolte soltanto quando voleva lei. Si lamentava dei vicini che reputava poco presenti – e in parte era vero – ma non considerava di avere un carattere particolare, per cui se non era nelle corde giuste mandava chiunque a quel paese. Reclamava molta presenza, ma bisognava saper gestire quegli spazi, sapere che saresti rimasto con lei fino a quando lo desiderava. Se decideva che dovevi andartene, te ne andavi subito. I suoi grandi amici, quelli che hanno mantenuto un rapporto con lei negli anni, hanno saputo gestire bene questa cosa, hanno preso il meglio che poteva dare, che era enorme. Era molto generosa a livello verbale, creativo, si dava tanto, regalava piccole cose, magari anche una poesia, ma era capricciosa. Come tutte le grandi donne…».
La poetessa Alda Merini è stata – come si dice oggi – lanciata da grandi nomi quali Giorgio Manganelli, Giacinto Spagnoletti, poi supportata da Salvatore Quasimodo e Pasolini. Che rapporto aveva con i grandi artisti del suo tempo?
«Con Quasimodo aveva un rapporto amicale molto intenso. Manganelli è stato il primo amore, finito un po’ malamente, siccome lui tornò a Roma mentre lei rimase a Milano. Con gli altri grandi scrittori, non mi sembra che avesse rapporti rilevanti. Dagli scritti che ho ritrovato, ho notato come abbia sempre cercato di mettersi in contatto con le case editrici, gli editori, con chiunque potesse reinserirla nell’ambiente letterario dopo essere stata messa da parte, dimenticata. Credo sarebbe stata disposta anche a lavorare in una casa editrice pur di rientrare nel giro. Tra i grandi artisti c’è una sorta di egocentrismo molto spiccato, ognuno crede di essere il migliore, anche lei. Negli ultimi anni sosteneva di essere il primo poeta d’Italia, pensare di avere un confronto con chi non era allo stesso livello forse non lo considerava stimolante».
Qual è la Sua poesia preferita?
«Ce ne sono tante. Personalmente, preferisco il primo periodo, quando era giovane, quelle poesie sono le mie preferite. Vorrei leggergliene una: Il gobbo. Credo sia una poesia molto immaginativa, nel senso che è predittiva di quello che sarebbe stata la sua vita. Poi, però, mi dice qual è la Sua».
Volentieri.
«Allora leggo».
Io ritrovo molto di quella che era la poetica di Sua madre in I poeti lavorano di notte. A mio avviso, viene fuori il buio dei momenti neri, ma anche tutta la propria esigenza di libertà. (Leggiamo quasi all’unisono, reciprocamente – nda)
I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere iddio
ma i poeti nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.
«Che bella quella… Lei non dormiva tanto, era molto inquieta di notte, si svegliava diverse volte. Magari i farmaci che aveva preso le avevano anche disturbato il ritmo del sonno-veglia, però, la notte è il momento ideale per qualsiasi artista, perché non ha intorno quello che è il mondo di tutta l’altra gente che lavora, che ha ritmi costanti e si occupa di cose mi vien dire banali rispetto a queste altre. Sì, quella lì è molto bella. Sa che Giovanni Nuti ha musicato alcune delle sue poesie? Alcuni versi che a me non piacevano, in musica, li ho apprezzati molto di più. La musica è un grande vettore di emozioni».
Le faccio un’ultima domanda: cosa ha dato la poesia di Alda Merini alla Sua creatività?
«Non mi ritengo una poetessa e non è il mio obiettivo, non lo è mai stato. Credo che chi vive con un cuoco è normale che impari a parlar di cucina o a cucinare anche bene. Io, purtroppo o per fortuna, ho preso delle cose importanti da mia madre, come il senso dell’umorismo, il saper sdrammatizzare, l’attaccamento e la gioia verso la vita. Ho respirato poesia perché Alda Merini declamava i suoi versi in casa. Non ha mai smesso di farmeli ascoltare, anche quando ero più adulta. L’abitudine a scrivere delle proprie emozioni, anziché comunicarle in modo più esplicito, per lei era una virtù, per me è stato un limite. Avrei voluto imparare a gestire le mie emozioni in modo più visibile e corporeo anziché scrivendo, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con i miei figli. Ho vissuto questa modalità qui, ma essere bravi a comporre poesie è un’altra cosa. Sarà che il mio confronto era mia madre, ma avevo davanti un’eccellenza».
Mi leggerebbe la poesia che ha dedicato a Sua madre e con cui apre il libro, Alda Merini, mia madre?
Vuole dedicarle un altro pensiero? Qualcosa che non abbiamo detto
«Quando era felice intratteneva le persone con qualche breve suonata di pianoforte, andava a orecchio. Quando ero piccola andavamo a prendere gli spartiti alla Ricordi, in galleria Vittorio Emanuele, a Milano. Poi, durante gli ultimi anni aveva perso questa agilità, suonava poco, ma era brava. Suonava le melodie dei bambini. La mamma amava molto la musica, i nostri cantautori, Dalla, Paoli, il Celentano dei primi tempi. Se era felice, suonava».
*le fotografie sono dell’archivio personale di Emanuela Carniti