Solo qualche settimana fa, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni descriveva il Protocollo d’intesa siglato nel 2023 tra Italia e Albania per il trattenimento di migranti nei due centri di Gjader e Shengjin come un “progetto innovativo”. Dopo numerosi rinvii della loro apertura – era prevista per giugno, poi per agosto, infine settembre –, la prima deportazione c’è stata il 14 ottobre scorso e da allora gli eventi susseguitisi sono stati vorticosi, anche se in qualche modo prevedibili.
Quella sera, le persone soccorse in acque internazionali – e in particolare in zona SAR (zona di competenza per la ricerca e il soccorso) italiana – pare fossero di più, ma solo 16 sono state selezionate tra le “non vulnerabili” per le quali era possibile il trasferimento a bordo della nave militare Libra. Molti dubbi sono sorti rispetto alle modalità del soccorso e all’individuazione della cosiddetta vulnerabilità – era sufficiente che fossero uomini non anziani? –, trattandosi di una valutazione che richiederebbe spazi, strumenti e tempi adeguati che non sembrano esserci stati. Le stesse norme appaiono opache e il trasferimento avvenuto in fretta e furia non è stato documentato da alcun giornale.
Già all’arrivo nel porto di Shengjin, in quattro sono stati ritenuti inidonei al trattenimento – a dimostrazione della difficoltà insita in una così frettolosa valutazione di eventuale vulnerabilità –, due perché minori, altri due perché non in buone condizioni di salute e dunque non rispondenti ai criteri fissati con il Protocollo Italia-Albania. Il trattenimento dei richiedenti asilo al di fuori del territorio italiano ed europeo, infatti, in base al documento è possibile solo rispettando alcuni criteri e, tra gli altri, deve trattarsi di uomini adulti in buono stato di salute e provenienti da Paesi considerati sicuri.
Quest’ultimo elemento è una delle caratteristiche principali da rispettare perché sia legittima non solo la procedura di trasferimento ma anche la forma accelerata di disamina a cui è sottoposta la richiesta d’asilo, ed è proprio rispetto a questo requisito che si è creato il problema maggiore. Dopo le relative procedure di identificazione e visite mediche, infatti, il Tribunale di Roma, in particolare la sezione competente specializzata in immigrazione, ha avuto quarantotto ore di tempo per convalidare il relativo fermo e a questo punto ha deciso che tutti i migranti andavano riportati in Italia, in base a una recentissima sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Nonostante ciò che dicono Meloni e il suo poco competente Governo, infatti, quella del Tribunale di Roma non è stata né una decisione politica né una decisione che oltrepassa i loro limiti di competenza, ma semplicemente un adeguamento a una decisione del principale Tribunale dell’Unione, che aveva impatto, indirettamente, anche sulla configurazione di quei “Paesi sicuri” di provenienza dei migranti trasferiti, ossia Egitto e Bangladesh.
Pur riguardando il caso in esame un cittadino moldavo, la Corte aveva avuto modo di precisare che un Paese può considerarsi sicuro solo se lo sia su tutto il suo territorio in modo omogeneo e per tutte le persone che lo abitano, ribadendo inoltre che la qualifica di Paese sicuro vada riesaminata dal giudice per ciascuna decisione. Ecco che quindi il Tribunale di Roma ha stabilito che l’Egitto e il Bangladesh – da cui arrivano ogni anno in Italia migliaia di richiedenti asilo – non possono essere considerati sicuri perché non rispettano tale definizione considerato che gli attivisti politici di opposizione vengono spesso perseguitati e ci sono leggi molto severe contro chi appartiene alla comunità LGBTQIA+.
Le persone migranti deportate – crediamo proprio che sia questo il termine giusto da utilizzare – sono quindi state trasferite nuovamente in Italia, con buona pace delle ingenti risorse pubbliche spese in questa pantomima. E così, pochi giorni dopo la decisione, il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legge che contiene una lista dei Paesi considerati sicuri, nel tentativo di mantenere aperti i centri in Albania e, secondo le parole del Ministro Piantedosi, offrire ai giudici un parametro per l’applicazione della legge, con una chiara e indebita commistione del potere esecutivo in quello della magistratura.
Facendo qualche passo indietro, le strutture sono state costruite con risorse italiane e verranno gestite dall’Italia, ma l’Albania avrà invece il compito della vigilanza, del controllo e dell’eventuale arresto. Fin dall’inizio di questo raccapricciante progetto, da più parti esperti avevano fatto notare che le basi giuridiche su cui fondava rischiavano di violare le sovraordinate norme europee e in particolare il divieto di respingimenti collettivi. Ricordiamo inoltre che nei mesi scorsi già il Tribunale di Palermo e quello di Catania avevano avuto modo di sottolineare come la cosiddetta direttiva UE “accoglienza” prevede il trattenimento per i richiedenti asilo solo quale extrema ratio – mentre nel caso dell’Albania diventa la norma – e che in ogni caso vadano rispettati gli irrinunciabili principi di necessità e proporzionalità.
Il Governo è ben consapevole di quanto scricchioli il “progetto innovativo” di cui si vanta: ce lo dimostra lo stesso viaggio così piccolo – appena 16 persone a dispetto dei costi enormi sostenuti – che assomiglia molto a un tentativo di dimostrare all’opinione pubblica che il Protocollo stava assumendo la forma promessa. Il decreto legge sui Paesi sicuri diventa così l’ultimo tentativo di avvalorare le tesi finora sostenute, salvo poi, nel caso di insuccesso, appellarsi ai complotti politici della magistratura.
Le condizioni del nostro Paese sono chiare se proviamo a leggere il rapporto pubblicato dalla Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) del Consiglio d’Europa, che non è stato certamente scritto negli ultimi giorni ma che ne descrive a pieno il clima. Razzismo delle istituzioni e, in particolare delle forze dell’ordine, condizioni di vita disumane dei migranti irregolari, attacchi ingiustificati dei politici alle organizzazioni che si occupano dei migranti e nei confronti dei giudici che decidono di casi legati all’immigrazione, dibattito pubblico xenofobo e omofobo.
Il progetto innovativo di cui parliamo, che ha ricevuto anche le lodi della Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen come possibile modello per la gestione dei flussi migratori, non è altro che una deportazione in piena regola, in barba a qualsiasi diritto umano e a quei principi che dovrebbero essere universalmente riconosciuti ma che la nostra società sembra aver completamente rimosso. Ce lo dimostra l’indifferenza globale verso le morti di Gaza, verso guerre sanguinose e genocide, verso chi non corrisponde a un funzionante ingranaggio del grande meccanismo capitalistico in cui siamo immersi. Se non sei in grado di produrre, la tua vita vale nulla.