Di tanti che eravamo siamo rimasti in pochi è la frase di apertura de Ai sopravvissuti spareremo ancora (Fazi Editore), romanzo d’esordio di Claudio Lagomarsini, ricercatore di Filologia Romanza all’università di Siena. E tra quelli rimasti c’è una delle due voci narranti del libro, soprannominato il Salice, di cui non si conoscerà mai il vero nome. A lui è toccato in sorte di tornare dal Sud America, dove risiede, nella ristretta provincia nella quale è cresciuto per seguire la vendita della vecchia casa in cui abitava con la famiglia. Un ritorno a cui si è piegato a malincuore, così come ci si approccia a capitoli della propria vita che si è sperato di accantonare definitivamente. L’agenzia che si occupa della vendita gli ha chiesto di selezionare quale delle poche scatole rimaste vuole tenere e quali buttare, e il Salice si appresta a farlo nel minor tempo possibile.
Con la scusa di alcuni impegni di lavoro mi fermerò il meno possibile. Mi aggiro tra le scatole come un angelo della morte, sbuffando come un treno a vapore. L’insofferenza e il fastidio di essere qui prevalgono sulla nostalgia. Segno croci rosse senza misericordia, condanno allo smaltimento vasellame e soprammobili.
Ma tra quegli scarti di una vita dimenticati, abbandonati sul fondo di polverosi scatoloni, il Salice ritrova cinque quaderni con la scrittura minuta di suo fratello maggiore Marcello. Quaderni che rappresentano il cuore del romanzo che questi stava scrivendo in un’estate della loro lontana adolescenza e il cui titolo è proprio Ai sopravvissuti spareremo ancora. Le vicende descritte costringono il Salice a guardare con gli occhi del fratello maggiore le esperienze di quella stagione passata che già allora odoravano di ineluttabilità. Di quell’estate, mentre il Salice viveva la sua spensierata adolescenza tra sbornie, uscite con gli amici e baci con troppa saliva, Marcello descrive con sguardo cinico ma al contempo comprensivo le vicende che avvolgono la sua famiglia disfunzionale. Con le sue parole, solleva il coperchio di quel vaso di Pandora che rappresenta la realtà di provincia volgare e meschina in cui si ritrova a vivere. Un ritratto lucido e impietoso di un mondo al tramonto, ma non ancora tramontato, in cui si sente spettatore impotente.
Marcello osserva col suo occhio acuto i vicoli inestricabili e le file di villette a schiera con mura così sottili da non garantire spesso neanche la privacy familiare. Villette nelle quali si dipanano rapporti che si rivelano i più difficili da snodare. In particolare, il legame che ha sua madre con Alessandro, soprannominato Wayne, compagno egemone che non riesce a vedere la donna in un ruolo diverso da quella di serva.
Bisogna riconoscere che la tecnica di controllo codificata da Wayne era ed è fenomenale. […] il primo passo consiste nel fornire aiuto non richiesto a una persona in difficoltà; quindi, senza farlo pesare (anzi, senza parlarne mai esplicitamente), trasformare l’aiuto occasionale in una consuetudine, in un piano quinquennale di aiuti. A questo punto chiedere piccoli servizi, prima una tantum, poi anch’essi consuetudinari. Trasformare, così, le persone in aiutanti, collegare ogni aiuto prestato a un favore da riscuotere. Se l’aiutato è una donna, è tutto più semplice: si proceda a farne una serva. In seguito: soffocare sul nascere le sedizioni, spostare il conflitto su altri piani. Parliamo di panni sporchi, ma parliamo di soldi. Io posso portare la polo in lavanderia. I pantaloni da stirare posso darli, per pochi euro, alla cinese che abita sopra al mio negozio. Quando non ho voglia di cucinare o di riscaldarmi qualcosa, posso mangiare in una tavola calda. E posso passare le mie serate libere al bar con gli amici. Posso comprarmi una donna, una sera che ho voglia. Tu sei sicura, sì, di voler tornare a pagare le bollette? Per una polo blu.
Ma Marcello è conscio che anche Alessandro è il prodotto inconsapevole e caricaturale di quei western di serie b che ama tanto e che gli sono valsi il nomignolo.
[Alessandro ndr] non aveva mai aperto un libro in vita sua ma a Marcello vorrei dire: è la provincia bellezza. Scegliere un’altra strada, qui, significava condannarsi a un’esistenza infelice, essere maltrattato da una stronzetta di nome Sara e passare le estati in camera a tradurre dal greco e rileggere i russi. Ne valeva la pena? A un certo punto del tragitto Marcello deve essersi reso conto anche di questo: nei libri e nei film in cui sperava di ricavare risposte trovava solo ulteriore turbamento. Noi – gli altri – leggevamo poco e male, guardavamo schifezze, eppure (o proprio per questo) ci andava tutto bene, perché non ci rendevamo conto. Alessandro, come me, era una persona vacua e felice.
A fare da controparte rivale a Wayne c’è il vicino dirimpettaio soprannominato da Marcello il Tordo. Vecchio e laido, un Don Giovanni stantio viene descritto in maniera perfetta dai racconti da predatore che non manca di sciorinare alle cene “sotto al gazebo” a cui invita costantemente la famiglia.
Anche gli amori della maturità, consumati in deroga al matrimonio, non si direbbero tradimenti. Gli incontri e gli accoppiamenti si verificavano con la naturalezza di ciò che è ineluttabile. Non c’è forzatura, colpa o peccato. Gli organi convessi si irrigidiscono e scivolano in quelli concavi ai quali, a seconda della fretta e della fregola, si può dare o meno il tempo di lubrificarsi.
Tra una serie di rapine e un innamoramento non corrisposto, l’evento che spicca è la decisione di Wayne e del Tordo di avviare un orto in comune. Decisione che si mostra subito pessima e che porterà all’epilogo del tutto inaspettato del libro. Quale modo migliore per mostrarsi machi e predominanti per gli uomini antichi di questo romanzo che coltivare la nuda terra? I legami familiari, già stiracchiati, vengono messi a dura prova. Solo Marcello tenta di dare un freno all’ipertrofia dell’ego dei due uomini. Nell’illusione che le parole possano generare senso, prova ad arginare l’istinto di maschi alfa, a dare voce alla madre, a porre una cornice smarginata a personaggi con margini, invece, fin troppo spessi.
Si apre, qui, l’ennesimo raccontino a cornice del mio romanzo: più che un diario romanzato, dunque, una specie di Decameron. A mio discapito posso garantire che ho fatto una cernita, ho scelto solo i racconti più rappresentativi dei narratori, dei loro ideali, del mondo in cui sono cresciuti. Perché il lettore non li condanni senza prima sapere da dove vengono.
Lagomarsini scrive un romanzo equilibrato, dove Marcello restituisce l’immagine di un mondo patriarcale che ci piace considerare morto ma che in realtà è ancora vivo e recalcitrante a lasciarsi superare. Dove l’illusione di una “grande famiglia moderna” in cui convivono genitori divorziati e risposati, personaggi liberali e libertini, in cui il sesso e la volgarità dominano il linguaggio quotidiano, fa da contraltare al corno e alla croce tenuti insieme dalla stessa catenina appesa al collo, ad armi tenute in casa, a un becero e profondo razzismo verso chiunque sia diverso. Ma Marcello non si erge mai a giudice, lascia parlare i personaggi, quasi a volergli dare la possibilità di giustificare la loro meschinità. Riesce in questo modo a evitare rappresentazioni caricaturali e banali dosando saggiamente ironia e disillusione.
Il rapporto tra il Salice e il romanzo di suo fratello sembra invece bloccato a quell’estate di molti anni prima. Figura marginale e silenziosa nei quaderni, la sua voce si fa quasi troppo ingombrante quando Marcello termina di raccontare la propria storia. Forse, a spingerlo è il disagio di aver inconsapevolmente fatto parte della miscela dal potenziale esplosivo che alimentava quel microcosmo. Quell’estate, così come la descrive Marcello, lo coglie alla sprovvista e lo spinge a riconsiderare che forse il nervosismo, l’apatia e la ricercata solitudine, malcelati da una cordialità di facciata, non facevano parte solo del carattere malmostoso attribuito al fratello, ma erano un disperato tentativo di evitare la condanna a un’esistenza infelice.
Un contributo di Giuseppe Carotenuto, libraio
Puoi acquistare questo libro presso le sue librerie di Portici e Castellammare di Stabia