«Mi piacciono tutti i suoni che sconvolgono le persone, perché sono troppo soddisfatte di sé, ed esistono suoni che le sconvolgono davvero, e ragazzi, c’è davvero bisogno di sconvolgerle e renderle meno soddisfatte, perché il nostro è un mondo terribile: forse a quel punto si daranno da fare».
Le parole che ho riportato appartengono a una creatura saturnina. Si chiamava Herman Poole Blount ed era un pianista jazz, un compositore e un filosofo afroamericano. O, almeno, si chiamava così prima di abbandonare la sua identità terrestre e adottare il nome di Sun Ra, essere cosmico e divino. Durante il college, il musicista dichiarò di aver avuto un’esperienza extracorporea che lo avrebbe cambiato per sempre. «Mi trovavo in un pianeta che capii essere Saturno […] mi avevano teletrasportato […]. Avevano una piccola antenna sugli occhi e una piccola antenna sulle orecchie. Mi dissero di non continuare a frequentare il college. […] il mondo stava andando verso il caos e il mio compito sarebbe stato quello di parlare attraverso la musica e il mondo avrebbe ascoltato».
Da allora, Sun Ra divenne un mito. Lasciò il college per formare la sua Arkestra: un gruppo di trenta, quaranta musicisti, ballerini e mangiafuoco. Con loro, Sun Ra creò uno spettacolo cosmico – un jazz alieno, siderale, sconvolgente. Costumi egizi, suoni atipici, fumo e follia: l’Arkestra fu una rivoluzione. Tanti artisti hanno seguito le orme della sua farsa, da Ziggy Stardust a Lady Gaga. Forse, il suo era un atto teatrale volto a scuotere il pubblico dal torpore. Forse, aveva sul serio un passaporto alieno. In ogni caso, il suo impatto fu enorme: sulla base della sua filosofia fatta di futurismo, misticismo africano e spiritismo, nacque una nuova corrente artistica, l’afrofuturismo.
La definizione è stata coniata da Mark Dery nella sua raccolta Black to the Future, che la delineava come l’appropriazione della tecnologia e dell’immaginario science-fiction da parte degli afro-americani […] questa appropriazione equivale a fare uso di strumenti informatici freddi e ostili per trasformarli in armi utili alla resistenza di massa. Secondo Dery, la difficoltà di immaginarsi nel futuro deriva dall’essere stati privati di un passato. La storia dell’Africa è stata negata, la sua cultura cancellata o ridotta a stereotipi. Proprio per questo, è nata la volontà di immaginare una futurità nera, mescolando miti e leggende africane e speculative fiction.
C’è una ragione ulteriore per la quale la comunità nera si è riconosciuta così fortemente in questo immaginario: l’esperienza afroamericana è simile a quella di un rapimento alieno. Rapiti dalle navi – spaziali – dei colonizzatori, gli africani vengono deportati in un mondo altro, ignoto, ai confini dell’universo conosciuto. Verranno sfruttati come forza lavoro, e considerati una specie differente e inferiore. Un incubo sci-fi, di quelli distopici. Allo stesso tempo, c’è un rovesciamento di questa metafora: dal punto di vista coloniale, è l’africano a essere alieno, disumano e pericoloso.
Ma cosa succede se la comunità etichettata decide di rivendicare l’etichetta? È quello che è successo con la metafora aliena e la comunità queer, che ha accettato con orgoglio di essere così fuori posto da appartenere alle stelle. Lo stesso è avvenuto con le donne, che hanno rivendicato gli archetipi della strega e del mostro. Così, anche la diaspora diventa un viaggio intergalattico, il passato diventa futuro. Il linguaggio della musica nera è quello dell’anarchia, della trasgressione; l’essenza stessa del jazz è la rottura dei canoni musicali. Così, se la Terra è oppressione, lo spazio siderale è ribellione. Non è, però, una negazione delle proprie radici: il suono mantiene la memoria, scriveva Sun Ra. Lo spazio e la musica diventano luoghi di resistenza, di riaffermazione della propria cultura.
Neptune Frost, musical afro/cyberpunk del 2021, è la sintesi visuale di tutto ciò. Immaginate un campo nel Rwanda fatto di parti di computer dismesse. Immaginate un’Autorità indefinita, che sfrutta le risorse naturali e la popolazione del posto. Poi, tra visioni digitali, glitch e tamburi, un collettivo hacker che intenta una rivoluzione. Un immaginario potente, fluido, radicale. La musica diventa ribellione, l’hacking un modo di rivoluzionare la realtà. Nella scena d’apertura funerali e violenze, mentre una voce recita: La morte ci circonda. È il lavoratore a quanto pare a pagare il prezzo. In metallo prezioso. Nella valuta del Primo e del Terzo Mondo. Nella valuta del mercato nero. Nella valuta del ritmo del tamburo, del battito del cuore. Quella vecchia valuta del corpo nero.
La morte circonda la comunità nera, il mondo terribile di cui parlava Sun Ra. Visioni e musica mettono lo spettatore in una posizione scomoda, quella di testimone. L’unica via per la liberazione è allearsi. Neptune, hacker intersex, incontra Matalusa, giovane minatore. Sarà il loro incontro, quello tra passato e futuro, a dare inizio alla rivoluzione. Immagina un sogno e osa viverlo, viene sussurrato a Neptune nell’orecchio prima che si svegli in un corpo dalle fattezze femminili, ma che conserva i genitali maschili. In questo caso, l’hackeraggio della realtà diventa quello del proprio corpo, mettendo in discussione il concetto stesso d’identità. Il passo successivo è plasmare la realtà esterna, metterla in discussione, riscriverla. Tramite un massivo attacco del collettivo hacker, le condizioni dei lavoratori verranno svelate al mondo intero.
Nei miti tecno-utopisti, la figura dell’hacker è assimilabile a quella del trickster, l’ingannatore: colui che mette in moto cambiamenti imprevedibili nelle storie, distruggendo o rivoluzionando l’ordine costituito. Hyde scriveva che ogni comunità ha i suoi confini, il suo senso del fuori e del dentro, e l’impostore (“trickster”) è sempre lì alle porte della città o alle porte della vita, facendo in modo che ci sia sempre scambio. […] Distinguiamo costantemente giusto e sbagliato, sacro e profano, pulito e sporco, maschio e femmina, giovane e vecchio, vivente e morto, e ogni volta l’impostore varcherà la linea e confonderà le distinzioni. Egli incorpora dunque l’ambiguità e l’ambivalenza, la doppiezza e la duplicità, la contraddizione e il paradosso.
Allo stesso tempo, l’hacker presiede la soglia tra la realtà e il cyberspazio, confondendone le linee. E, proprio come il trickster per eccellenza – il dio Loki –, anche l’hacker di Neptune Frost ha un genere fluido. Il binarismo di genere mal si adatta a chi, per natura, sovverte le dicotomie. La saga di Matrix è portatrice di questa ideologia, del glitch come superamento dell’identità. Donna Haraway, in Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature, scopre invece nella figura del cyborg l’emblema del superamento dei limiti del binarismo di genere. Metà uomo e metà macchina, il cyborg è un’entità ibrida, che mette in crisi i confini. Siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo.
Per la Haraway il corpo del cyborg può farsi emblema di ogni minoranza – the cyborg is a kind of disassembled and reassembled, postmodern collective and personal self, e [t]his the self feminists must code. Di questa convinzione si è nutrita Janelle Monáe, cantautrice e attrice afroamericana. Nel suo primo EP, Metropolis: Suite I (The Chase), poi confluito nel suo primo album The ArchAndroid del 2009, si presentò con un iconico alter ego: Cindi Mayweather, androide pansessuale. Come la cantautrice stessa dichiarò a Rolling Stones, è facile comparare l’essere androide con l’essere lesbica, gay, o un uomo nero. Quello che voglio è che le persone che si sentono oppresse o si vedono come “altro” si possano connettere con la mia musica, che pensino “lei rappresenta ciò che sono”.
Ascoltando Metropolis: Suite I (The Chase) scopriamo che l’androide Cindi Mayweather si è innamorato di un umano e ha fatto adirare i signori della Terra. Gli androidi devono essere solo schiavi, forza lavoro, e nulla di più. Per non essere smembrata e deattivata, Mayweather fugge, con i suoi aguzzini alle calcagna. Nei due album seguenti, The ArchAndroid e The Electric Lady, Mayweather diventa il leader della rivolta androide. Nel video di Many Moons la vediamo intrattenere il pubblico di un’asta, composto da umani che comprano e vendono gli androidi come oggetti. Mayweather canta, e richiama a sé i suoi fratelli androidi. La musica diventa uno strumento di rivolta, mentre l’androide chiede ai suoi compagni: will you be electric sheep?.
La saga sci-fi di Cindi Mayweather non si conclude con una vittoria, gli androidi sembrano intrappolati in un loop infinito di rivolte e sconfitte. Però, nel terzo album di Monáe, Dirty Computer, le cose cambiano. Il nuovo alter ego dell’artista si chiama Jane 57821 e sta per essere resettato. Il cortometraggio che accompagna l’album si apre così: you were dirty if you looked different. You were dirty if you refused to live the way they dictated. You were dirty if you showed any form of opposition. At all. And if you were dirty… it was only a matter of time. Nel mondo distopico di Jane, se sei differente vieni marchiato come sporco, uno sporco computer. E la pena per chi è sporco è la cancellazione di ogni ricordo, di ogni traccia della propria personalità.
Dirty Computer esplora l’alterità di genere, di razza e sessuale, e l’interazione tra individualità nera e tecnologia. A salvare Jane 57821 è il suo passato, sono i suoi ricordi: l’androide riesce a conservare la sua identità, a non essere resettata. Non dimentica la donna che ama, non dimentica la comunità nera con cui ha lottato. E loro non dimenticano lei. Come in Neptune Frost, la salvezza è nelle alleanze.