Siamo andati in Afghanistan per aiutare le donne. È stata questa, più o meno, la narrazione ricorrente che per vent’anni ha giustificato l’occupazione statunitense e occidentale nei territori afghani a partire dall’11 settembre. Ci siamo andati, e ci siamo rimasti per oltre vent’anni, perché avevano bisogno di noi, perché i primitivi cittadini di un Paese rurale dai costumi decisamente non occidentali aveva proprio bisogno che i magnanimi salvatori americani ed europei portassero un po’ di quella civiltà lì dove la civiltà non esisteva. Una narrazione razzista, suprematista, colonialista e inequivocabilmente falsa, che ha giustificato i soprusi e si è dileguata non appena il fallimento di un ventennio di occupazione è venuto fuori pochi attimi dopo la ritirata.
Siamo andati in Afghanistan per aiutare le donne e per liberarle dal regime oppressivo dei fondamentalisti, per dare loro diritti e libertà, sebbene prima dell’11 settembre di quelle donne non ci fosse importato nulla. È stato infatti l’attacco terroristico che ha cambiato la storia del mondo intero e la necessità di abbattere la minaccia terroristica che incombeva sull’Occidente a portarci lì, ma cosa ci abbia fatto restare per vent’anni è tutta un’altra storia. Parlo al plurale perché tutti gli Stati occidentali sono coinvolti in questa indegna vicenda, e perché anche l’Italia ha stanziato risorse militari sul territorio seguendo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. E parlo al plurale perché le colpe delle cose accadute in questi giorni – e in questi anni – sono difficili da definire, ma sono da ricercare un po’ in ognuno di noi. E anche se gli errori sono tanti, troppi, e le cose giuste da fare non si sa bene quali avrebbero potuto essere, per capire la situazione in cui si trova l’Afghanistan adesso e quali pericoli corre la popolazione, bisogna imparare a conoscere la storia di questo Paese tanto sfortunato quanto maledetto.
A noi pare – in modo inequivocabilmente errato – che le disgrazie dell’Afghanistan siano iniziate con l’arrivo dei talebani, quando nel 1994 il gruppo armato fondamentalista islamico fu fondato per poi prendere il potere nel 1996. E ci pare anche – con ancora maggiore superbia – che gli afghani avessero proprio bisogno dell’aiuto dell’esterno per fermare quei soldati pazzi e senza scrupoli che avevano introdotto solo violenza. Il che può anche essere vero, se non fosse che l’aiuto portato è stato quello sbagliato e se non fosse, soprattutto, che delle violenze che il popolo afghano stava subendo non ce ne fosse importato nulla prima che i talebani offrissero il loro sostegno ad al-Qaida, l’organizzazione terroristica di Osama bin Laden, e che quest’ultima distruggesse le certezze americane attraverso l’attentato terroristico più oscuro della storia. La guerra che ne è seguita e l’occupazione successiva sono solo una parte della questione afghana. L’unica di cui teniamo conto perché, superbi come siamo, non prendiamo in considerazione che una nazione tanto arretrata esistesse prima del nostro arrivo, ciechi come sempre quando si tratta di metterci in discussione.
L’Afghanistan, in realtà, avrebbe tutte le potenzialità per essere uno Stato ricco e potente. La posizione strategica in cui si trova, al centro tra sei Paesi, tra cui Pakistan, Iran e Cina, gli permetterebbe di avere il controllo di un territorio ampio. Le terre afghane non sono solo estremamente fertili grazie alla grandiosa presenza di minerali all’interno del suolo, ma contengono una vasta riserva di metalli, nonché di gemme preziose. E, chissà, forse sono proprio questi motivi di potenziale ricchezza a rendere il territorio tanto appetibile agli occhi di chi ha smania di potere, che si tratti di estremisti che si nascondono dietro gli ideali religiosi o di colonialisti occidentali essenzialmente senza scrupoli. Dopotutto, l’Afghanistan non ha praticamente mai avuto vita facile, da quando ha dovuto confrontarsi con l’imperialismo britannico nella prima metà del diciannovesimo secolo a quando è stato occupato dai sovietici diventando campo di battaglia della guerra di qualcun altro, fino a quando non sono arrivati i talebani.
In Afghanistan ci siamo andati tante volte, e mai per aiutare le donne. Al massimo, ci siamo andati per portare la civiltà che, secondo noi, loro non potevano avere, ma in fondo ci siamo andati esclusivamente per interessi geopolitici ed economici. E a pagarne le conseguenze è stato un popolo martoriato e, soprattutto, chi giuravamo di aiutare: le donne. Che le donne siano, in ogni cultura in ogni angolo della Terra, le vittime preferite dell’uomo e della sua rigida interpretazione di una religione o dell’altra, non è esattamente una novità. E sebbene, come abbiamo detto spesso, l’Islam sia molto diverso dal regime oppressivo a cui siamo soliti associarlo, l’Islam dei talebani è tutta un’altra storia. Il gruppo armato predica un’applicazione della legge islamica rigidissima e senza scrupoli, e tutto quello che hanno fatto tra il 1996 e il 2001 senza interessare troppo l’opinione pubblica internazionale lo stanno facendo oggi sotto gli occhi di tutti.
Gli uomini non possono tagliare la barba e non possono avere contatti con gli occidentali: chiunque in questi anni abbia collaborato con loro, come interprete, come intermediario o anche solo come autista, è spacciato, perché i Paesi in fuga dall’Afghanistan non riescono a tirar fuori tutti i loro collaboratori, e la condanna a morte è lì che li attende fuori la porta. Alle donne, invece, è riservato destino peggiore. Nell’interpretazione talebana delle leggi sociali, le donne non sono persone a tutti gli effetti perché non sono padrone di loro stesse. Ogni donna deve appartenere a un uomo e questa convinzione si declina in molti modi. Non possono uscire da sole, ma soltanto accompagnate da uno dei maschi della famiglia, anche un bambino va bene, purché sia chiara la scala sociale. Non possono mostrare neanche un lembo di pelle in pubblico e devono sempre indossare il burqa, perché solo l’uomo a cui appartengono ha il diritto di possederne il corpo e deve assicurarsi che tutti gli altri non possano neanche guardarle. Non possono parlare o ridere davanti agli uomini, devono essere invisibili in loro presenza, tanto da non poter indossare i tacchi, in modo che il rumore dei passi non attiri l’attenzione.
Nulla di tutto questo ha a che fare con la sessualità, la tentazione che le donne paiono incarnare in ogni narrazione religiosa. Ha solo tanto, tanto a che fare con il potere. Una donna presa come bottino di guerra, rapita, stuprata e sposata solo per identificarne il padrone non è la vittima di quattro folli dalla visione troppo rigida della religione, ma è vittima di un sistema in cui l’affermazione del potere passa per la sottomissione. Adesso, anche in questo preciso istante, i talebani stanno stilando una lista di tutte le donne nubili dai 12 anni in su, perché guai a usurpare le proprietà di un altro uomo, ma via libera sulle donne che non hanno padrone. Loro sì che possono diventare il mezzo, fatto di carne e di sofferenza, attraverso cui affermare la propria potenza.
In questi anni, è stato proprio per ridare identità, autonomia e libertà alle donne che molte associazioni hanno lavorato sul territorio. No, non gli Stati, per loro c’è tutt’altra parentesi, ma le organizzazioni non governative, che hanno tentato di aiutare le cittadine afghane nel loro mondo e non nel mondo degli occidentali. E sono proprio le organizzazioni che oggi rischiano di più sotto il regime dei talebani. Una fra tutte, l’italiana Pangea Onlus, che ha distribuito microcrediti alle donne afghane in modo da crearsi una propria attività, un proprio lavoro e una propria indipendenza con cui mantenere se stesse e la propria famiglia. La stessa onlus si è detta in pericolo perché non è un’organizzazione sanitaria e ai talebani non serve, ma la verità è un’altra: ai talebani sta scomoda, dà fastidio, perché ha ridato individualità alle donne e questo non è ammissibile.
Per quanto riguarda ciò che in questi vent’anni hanno fatto invece gli occupanti occidentali sotto il grido di aiutiamo le donne, ci sono molte problematiche. Quella che noi consideriamo liberazione, o aiuto, si chiama invece western saviorism, ed è solo uno degli errori fatti in questi decenni. Ma a fronte degli sbagli strategici, questo è probabilmente il più grave, l’ipocrita superbia di cui il mondo occidentale ha inevitabilmente peccato. La stessa per cui oggi rabbrividiamo alla vista delle immagini delle ragazze rapite, degli aeroporti affollati, delle strade senza passi femminili, ma non ci fa chiedere in che misura sia colpa nostra.
Non ce lo chiediamo perché non capiamo, non abbiamo idea che quello che per noi è stato aiuto non è stato molto diverso da un moderno colonialismo, da un superbo credere che il nostro modo fosse il migliore, che dovessimo esportare l’Occidente dove l’Occidente non c’era. La domanda non dovrebbe essere a cosa sono serviti questi vent’anni se al primo cenno di ritirata i talebani hanno ritrovato il potere, ma dovrebbe essere perché, come è potuto succedere. Come è possibile che una intera nazione, che dispone di un esercito di 200mila soldati, non sia in grado di respingere le violenze di 100mila uomini folli? Semplicemente perché l’Afghanistan non è un Paese occidentale, l’Occidente non è l’unica alternativa in cima alla scala dell’evoluzione sociale ed esportarlo dove le cose non funzionano non è la soluzione per risolverne i problemi. L’approccio, in questi anni, è stato essenzialmente questo, quello di rendere l’Afghanistan un Paese occidentale, senza tenere conto della sua identità, dell’impostazione tribale, delle divisioni etniche, della sua storia antica. Risultato: la democrazia ha fallito. Governi corrotti, istituzioni deboli, esercito inesistente non sono colpa degli afghani e neanche dei talebani, ma della nostra convinzione di essere migliori.
Sono tante le immagini che abbiamo visto scorrere in questi giorni, immagini rappresentative di un contesto ripugnante, ma ce n’è una che ho trovato la più rappresentativa, quella che meglio sintetizza la disgustosa morale di questa storia. L’11 settembre 2001 centinaia di persone si sono ritrovate, a loro insaputa, in due torri che da lì a qualche ora sarebbero crollate in seguito allo schianto di due aerei. E, in quei minuti di terrore, degli uomini hanno scelto di tuffarsi nel vuoto e cadere per centinaia di metri, pur di non morire divorati dalle fiamme o schiacciati dai piani superiori che crollavano. Ce lo ricordiamo tutti The Falling Man, quell’immagine straziante, e ce lo figuriamo tutti il suo terrore nel precipitare nel vuoto, davanti all’inevitabilità della morte e la possibilità di scegliere come morire quale unico atto di volontà ancora da poter compiere. Quell’uomo precipitava perché non poteva che morire, ma non era entrato in quell’edificio sapendo che sarebbe morto. L’immagine dell’aereo americano in cui due uomini aggrappati alle ruote cadono nel vuoto, invece, sembra la stessa cosa ma è tutto diverso. Quegli uomini hanno scelto di rischiare una morte quasi certa così, aggrappati al metallo di un aereo in volo a chissà quanti chilometri d’altezza, perché restare a terra significava qualcosa di peggio.
Se è vero che non siamo andati in Afghanistan per aiutare le donne ma solo per rispondere a quell’11 settembre, ciò che ne è venuto fuori non è stato solo un regolamento di conti con i terroristi. Per come sono finite le cose, per la sofferenza che abbiamo causato, per le milioni di donne oppresse e i milioni di uomini giustiziati a causa di un aiuto che si è rivelato fallimentare, forse l’effetto è stato quello di una vendetta. Una vendetta iniziata con gli americani travestiti da talebani e finita con i talebani armati da americani. Una vendetta riposta nelle persone sbagliate che, con la scusa di aiutare e nel farlo nel modo sbagliato, ha vendicato i suoi caduti creando tanti, nuovi, strazianti falling men che preferiscono morire nel vuoto, che scelgono una morte perché non possono evitarne un’altra. E non sembra questa la definizione di aiutare.