La figura della donna è spesso centrale nella vita di qualsiasi essere umano. Basti pensare che il nostro stesso essere al mondo è frutto di un miracolo di cui una madre si rende artefice, e che un uomo sente, chi prima, chi poi, il desiderio di ricreare quell’intimità degli anni dell’infanzia con la persona che l’accompagnerà per il resto della vita. Si dice che dietro ogni uomo di successo, ci sia sempre una grande donna. Nessuno – vado a memoria – ha mai affermato il contrario. Una di queste, entrata nelle vite di centinaia, migliaia di ragazzi, artefice di un loro cambiamento morale, come una mano tesa al delicato momento della crescita di questi ultimi, è Adriana Motti.
Nata a Roma nel 1924, della responsabilità che le abbiamo attribuito quasi se n’è sempre detta infastidita. Certamente non l’ha mai chiesta, né cercata. Scomparsa a Firenze nel gennaio di ormai otto anni fa, in quella vecchiaia schifa che le pesava sulla memoria e la schiena, è stata la prima – e celebre – traduttrice italiana del romanzo americano che ha segnato, più di ogni altro, un’epoca, e che ha accolto e disegnato il disagio e la ribellione di milioni di giovani nel mondo: Il giovane Holden.
Detta così, al lettore disattento, o fruitore soltanto della versione moderna della traduzione ad opera di Matteo Colombo – fortemente sponsorizzata da Alessandro Baricco – verrebbe da pensare che il preambolo sia un tantino esagerato, costruito ad arte al fine di onorare una professionista di un settore spesso dietro le quinte e avaro di gloria. In fondo, il merito di quel trasporto emotivo che le pagine del libro sono state e sono tutt’ora in grado di suscitare va attribuito in primo luogo all’autore di quel capolavoro senza tempo: Jerome David Salinger.
Assolutamente non contraddiremo chi sentirà di sottolineare quanto sopra. È innegabile che il sentimento di reazione provocato da The Catcher in the Rye – titolo originale dell’opera – sia esclusivamente frutto del genio dello scrittore newyorkese. Tuttavia, non è un caso che il nome di Adriana Motti sia passato alla storia assieme a quello di altri illustri traduttori che hanno lasciato un segno indelebile nella letteratura con il proprio stile, il proprio azzardare un termine piuttosto che un altro e il saper adattare naturalmente le parole di un continente tanto lontano dal nostro al linguaggio dei giovani di quell’epoca e non solo.
La traduzione Motti de Il giovane Holden è stata, senza dubbio, il valore aggiunto di un’opera già straordinaria nella sua natura originale, la strada che ha raggiunto, appassionato e coinvolto milioni di italiani, dalla prima all’ultima edizione.
Holden Caulfield, o quantomeno la sua versione italiana, è figlio di Salinger quanto della Motti stessa. Chi riconoscerebbe il giovane senza tutte quelle sue cadenze verbali come gli eccettera, eccetera che ripeteva di continuo, e compagnia bella, e via discorrendo? Queste, e altre espressioni entrate nell’immaginario collettivo legato a Holden come l’infanzia schifa con cui apre il romanzo e di cui dice di non voler parlare, sono strettamente legate all’interpretazione che la traduttrice aveva dato del personaggio salingeriano. Ed è ormai impossibile pensare a un Caulfield diverso, almeno per noi che abbiamo goduto del libro pubblicato da Einaudi prima della riedizione di Colombo. “Allora i ragazzi parlavano così.” Raccontò Adriana Motti in un’intervista del 1999 a Luca Sofri. “Mi son dovuta adeguare, e chiedere ai miei nipoti: in americano poteva essere più sobrio, aveva lo stile di Salinger che lo sosteneva, in italiano io dovevo reinventarmelo.”
Disse che quando le capitava di rileggere le parole che aveva infilato dentro Il giovane Holden le veniva da ridere, “Salinger usava espressioni che non potevo tradurre e cercavo di compensare, per rendere il suo stile, chiedendo ai miei nipoti. Una cosa sola me la sono inventata io, perché nessuno mi sapeva dire niente: che lui se l’era stantuffata sui sedili dietro della macchina. Chiedevo a tutti come si diceva e tutti mi dicevano le stesse cose che sapevo anch’io!”
“Mi meraviglia moltissimo di accorgermi, ora, di avere una fama, perché la gente non legge mai il nome di un traduttore.” Confessava, lei che di quel lavoro non era mai riuscita a innamorarsi, tanto da dirsi pentita di aver lasciato un posto alla Società Autostrade per rientrare nell’editoria. “Poi mi dicono, ma lei è quella che ha tradotto Il giovane Holden? Tutti, sempre, e mi fa ridere, io ho tradotto quaranta libri e si ricordano solo quello.”
Tutti ricordano Holden, e tutti lo ricordano grazie alla mai tramontata traduzione, e alle geniali intuizioni, di Adriana Motti.
Per chi, come noi, è parte di quei ragazzi a cui il romanzo di Salinger ha segnato un periodo chiave della propria esistenza è impossibile rassegnarsi all’idea che la casa editrice Einaudi non permetta ai propri lettori di poter scegliere tra le due traduzioni, privando, così, le nuove generazioni del privilegio di essere travolti dal lavoro impareggiabile della madre di Holden Caulfield.