Pochi giorni fa, l’Accademia della Crusca ha riacceso il dibattito riguardante l’utilizzo di schwa e asterisco per riferirsi alle persone non binarie. In un lungo post, Paolo D’Achille si è infatti lanciato in una digressione tecnica molto interessante, soprattutto riguardo alla difficoltà di utilizzo di queste forme scritte nella lingua parlata. Nella stessa comunità LGBTQ+ non tutti sono concordi sull’uso di schwa e asterisco, anzi, la ricerca di soluzioni migliori continua.
Ci sono diversi punti che, però, mi hanno lasciata perplessa. Numero uno: la conclusione del post. Conclusione che è stata usata per sponsorizzare e sintetizzare il post stesso, finendo più volte nei titoli dei giornali: Non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire.
Queste frasi veicolano un messaggio chiaro, ovvero che la lingua è pura da ogni ideologia e come tale va preservata. L’intento della Crusca è sensato: la lingua non è solo veicolo di propaganda, ma può essere essa stessa propaganda. E questo è pericoloso. L’esempio più immediato è quello del regime fascista, che si concentrò subito sul purificare l’italiano da parole straniere e sul suo insegnamento corretto tramite libri di testo unici, radio, giornali e dizionari. Tutto per creare un’identità nazionale pura e forte.
Quasi tutti i regimi totalitari si sono occupati della lingua poiché si tratta di uno strumento di consolidamento di potere e di creazione di identità sociali. La lingua crea categorie mentali, classifica e pre-identifica i concetti. Perciò bisogna evitare ogni tentativo di dirigismo linguistico.
L’Accademia ha giustamente scritto che la lingua si evolve dal basso, grazie al popolo, e non c’è grammatica che regga. A meno che non venga costruita a tavolino, come l’esperanto. Il punto è che questa istanza viene proprio dal basso. Non c’è un partito o una comunità di teorici che sta proponendo l’esistenza di una quinta/sesta identità. Non c’è la lobby gay, non c’è ideologia: ci sono solo persone comuni che vogliono poter descrivere il loro sentire personale.
Il termine ideologia gender è infatti un’arma retorica usata negli ambienti conservatori cattolici per strumentalizzare i gender studies nati a cavallo tra gli anni Settanta/Ottanta. Chi usa questa espressione sostiene che gli studi di genere sottendano un complotto che mira alla distruzione della famiglia e dell’ordine naturale su cui si fonda la società. In ambito accademico, qualsiasi riferimento all’ideologia gender è ampiamente considerato un tipico argomento fantoccio, una teoria del complotto. Per questo mi sorprende che l’Accademia abbia utilizzato proprio questo termine.
Immaginare che schwa e asterischi vengano usate solo nei salotti di sinistra o a casa di Michela Murgia significa essere distaccati dalla realtà. O non aver mai preso una birra con una persona non binaria. Le persone non binarie oggi esistono, dialogano con gli altri, vanno a fare le pizzate con la comitiva, stanno già vedendo che fare il prossimo Ferragosto. E creano una difficoltà comunicativa pratica da risolvere. Ora, l’Accademia ha sottolineato che l’evoluzione linguistica può accadere, ma la scelta deve sempre avvenire nell’ambito delle possibilità offerte dal sistema. Sistema che l’Accademia non ha mancato di offrirci bello impacchettato, parlando di standard istituzionale e di insegnamento scolastico. Risultando così proletaria e popolare quanto Mario Draghi che cerca di mimetizzarsi in un centro sociale. Certo, la grammatica che si insegna oggi è frutto di un’evoluzione della lingua che proviene dal basso. Ma non è che questa evoluzione si è improvvisamente cristallizzata perché siamo nel 2021, daje basta. E le persone non binarie fanno parte di parlanti che usano e danno forma alla lingua tanto quanto l’italiano medio.
L’obiezione principale dell’Accademia è che in realtà le difficoltà comunicative non esistono. È già tutto risolto. Prima risoluzione: il maschile plurale non marcato. Infatti, in italiano si è scelto di utilizzare il maschile come se fosse un neutro nel caso di un insieme di individui. Il/la candidato/a diventa i candidati. Il che è sensato, ma dall’altro lato non dà alcun riconoscimento alle nuove identità. Io non sono nettamente contraria a questa prima impostazione, ma riconosco che se stiamo facendo questa cosa per dare un riconoscimento identitario e creare nuove categorie, l’obiettivo non è centrato.
Sorvolo (anzi no) sulla battuta nel caso di infermiere e maestre d’asilo (o di altri gruppi professionali in cui la presenza femminile è preponderante) si dirà “salve a tutte!”’ e i pochi maschi se ne fa[ra]nno una ragione. Vabbè, ok. Il problema più pressante a livello identitario, in ogni caso, è al singolare. Se una persona non binaria viene costretta a presentarsi al maschile, è ovvio che verrà identificata come uomo. Questo perché le categorie uomo/donna sono già fortemente affermate nella nostra lingua. E il rischio di fare confusione c’è, quando non hai il lessico per distinguere le cose.
Passiamo quindi al secondo concetto: il genere naturale e il genere grammaticale non necessariamente corrispondono. È indubbio che, in particolare quando ci si riferisce a persone, si tenda a far coincidere le due categorie […] ma questo non vale sempre: guida, sentinella e spia sono nomi femminili, ma indicano spesso (anzi, più spesso) uomini. Arlecchino è una maschera, come Colombina, mentre Mirandolina è un personaggio. Tutto vero, infatti sto usando il termine persona, femminile, per identificare i non-binary. Ma questo non esclude che se mi prendo un caffè con una persona non binaria, non so come usare articoli, aggettivi della I classe o participi passati. Non so se Colombina, Arlecchino, guide, spie e sentinelle potranno correre in mio aiuto.
Passando al mondo animale […] nella maggior parte dei casi il nome, maschile o femminile che sia, indica tanto il maschio quanto la femmina (la lince, il leopardo, la iena, la volpe, il pappagallo, la gazza, il gambero, la medusa, ecc.). Il che sarebbe utilissimo se il caffè dovessi prenderlo con un gambero non binario. Ma di solito non mi capita spesso.
A parte ogni ironia, questa analisi è totalmente corretta a livello grammaticale. Ma, nella pratica, lascia fuori un mondo di espressioni e parole fondamentali per capirsi e conoscersi. L’italiano offre tuttavia il modo di non precisare il genere della persona con cui o di cui si sta parlando. L’unica avvertenza sarebbe quella di evitare articoli, aggettivi della I classe, participi passati, ecc. Quindi, secondo la Crusca, il problema non c’è se lo aggiriamo. Quando dobbiamo provarci con una persona non binaria, la soluzione è dire: «Sei una bel-, ehm, sei davvero salubre come identità.» Forse, l’Accademia è riuscita a proporre l’unica cosa al mondo più scomoda degli asterischi.
Questa proposta è una non-proposta. Non dice assolutamente nulla delle nuove identità, anzi, è un non-dire, un non-identificare. Aggirare in questo modo la situazione sarà un buon escamotage a livello teorico, ma non mi salverà da una conversazione imbarazzante dove l’unica possibilità che ho è quella di evitare certe parole. Manco avessi davanti Tu-Sai-Chi. Questa lezione di grammatica mi ha lasciata solo più confusa e piena di domande di prima, ha risolto poco e reso tutto ancora più complesso. Un po’ come alle elementari.
Dirò due cose:
– Il problema, come tu sottolinei, non è tanto al plurale, quanto al singolare; anzi, io sarei un po’ più apodittico: al plurale non sussisterebbe praticamente nessun problema. Quando in una lingua esiste un genere grammaticale che i linguisti definiscono “non marcato” significa che sul piano del significato noi non stiamo marcando il nome dal punto di vista del genere. Non è una scappatoia, davvero, è al contrario un’acquisizione fondamentale della linguistica moderna: dire “gli studenti” provoca la stessa percezione semantica che abbiamo dell’inglese “student”, cioè non marcato rispetto al genere, perché morfologia e semantica sono due livelli di analisi differenti. Ogni dibattito sull’asterisco al plurale sarebbe, a mio parere, molto futile e fuorviante. Senonché quando, ormai parecchi anni fa, prese a diffondersi quella forma di galateo linguistico che si compiace di parlare a lettori e lettrici, ascoltatori e ascoltatrici, spettatori e spettatrici, lavoratori e lavoratrici… le cose si sono fatte più difficili. In queste coppie maschile-femminile, infatti, il genere grammaticale risulta marcato e anche il maschile cessa di essere generico e diventa automaticamente riferibile ai soli maschi. Questa innovazione fu una conquista del femminismo, perché riconosceva la presenza della donne come quella degli uomini nei più diversi contesti della vita sociale, politica, etc. Ma andò a discapito, linguisticamente s’intende, delle persone non binarie. Solo a questo punto si apre il problema, che secondo me resta futile perché obbedisce a un antieconomico e sproporzionato eccesso di zelo, ma che sul piano astratto e teorico è, si può dire, più legittimo.
– Al singolare esiste in effetti un problema. Noi possiamo studiare soluzioni generali relative al modo in cui rivolgersi a persone sul cui genere abbiamo dei dubbi, ma al di là di questo sono sicuro che, se siamo capaci di rispetto e sensibilità, saremo altrettanto disponibili ad ascoltare i suggerimenti della singola persona con cui interagiamo e a metterli in pratica. Maschi e femmine sono la maggioranza delle persone, e le persone non binarie lo sanno bene; le gaffe, i dubbi, le domande e le piccole incomprensioni non sono forme di offesa, ma in un clima di rispetto possono costituire il primo stadio dell’avvicinamento all’Altro. Se la nostra cultura saprà rimanere sensibile alla questione senza trasformarla in un problema prettamente linguistico e formale, io sono certo che nessuno si sentirà emarginato perché non esiste un prontuario ineccepibile dedicato al linguaggio inclusivo.