In Italia si parla spesso di disparità salariale, di femminicidio e di violenze. Di annientamento di genere, di patriarcato latente e di mentalità retrograda di fondo. Tutti problemi veri, reali, con i quali è difficile avere a che fare ma con cui dobbiamo confrontarci quotidianamente. Questioni che vanno combattute con urgenza e che, invece, siamo ancora tristemente lontani dal risolvere, con il rischio che tali resteremo finché una rivoluzione culturale non muterà la forma mentis e la fitta impalcatura maschilista su cui il pensiero italiano si fonda. Ma, al di là delle gravi tematiche sopracitate, per moltissime donne del mondo persistono problemi che, a volte, non riusciamo nemmeno a immaginare, pratiche che fanno rabbrividire e che sono frutto di convinzioni tanto radicate quanto abominevoli.
Tra le notizie relative alla parità di genere che saltano all’occhio in questi giorni, regna certamente sovrana quella proveniente dalla Nuova Zelanda, che ha appena reso legale l’aborto. L’interruzione di gravidanza è stata parte delle leggi penali del Crime Act per oltre quarant’anni, ma finalmente il Parlamento ha introdotto una legislazione a riguardo. Sembra una bella notizia a metà, tuttavia, perché è sconcertante che una legge tanto fondamentale si istituisca soltanto nel corso del ventunesimo secolo in un mondo che si ritiene evoluto e, invece, si ritrova ancora oggi a combattere per i diritti fondamentali. Valutando la situazione mondiale e l’esiguo numero di Paesi che considerano l’aborto una questione di salute e non un abominio a livello etico e religioso, però, il passo in avanti della Nuova Zelanda dovrebbe far ben sperare.
Eventi come questo fanno rumore, sono acclamati da più parti come una conquista e, in effetti, è giusto celebrare i piccoli successi, i passi avanti verso la tanto agognata parità. Ma ci sono notizie, questioni terribilmente correlate a questa e di incredibile gravità, di cui spesso ignoriamo persino l’esistenza. In gran parte degli Stati del mondo, l’aborto non è tollerato ed è considerato un crimine, a volte indistintamente dal motivo che induce una donna a praticarlo. E in alcuni di quegli stessi Paesi in cui una donna non può scegliere per se stessa e per il proprio corpo esiste un caso, un’abominevole situazione, in cui l’interruzione di gravidanza è tollerata: quando il feto è una femmina.
Si chiama aborto selettivo di genere e consiste nella necessità per le famiglie di avere eredi maschi, scongiurando così il disonore, il peso economico e l’inutilità di avere una figlia. A praticarlo sono soprattutto la Cina e l’India, ma anche numerosi altri luoghi del pianeta tollerano, seppur non ufficialmente, l’interruzione di gravidanza per i feti dallo scomodo corredo genetico.
È difficile calcolare esattamente quante siano le bambine selettivamente eliminate e quelle abbandonate o uccise appena nate, ma uno studio del 2019 stima che siano 23 milioni, di cui 11.9 milioni in Cina e 10.6 in India. E se l’incisiva concentrazione di casi nei due territori asiatici può lasciar credere che si tratti di una pratica tanto retrograda quanto lontana da noi, sia chiaro che esistono migliaia di casi anche nell’evoluta Europa. Si calcola che nel mondo manchino all’appello della vita oltre 117 milioni di bambine e, se numeri del genere fanno rabbrividire, le motivazioni attribuite per giustificare una tale spietatezza spaventano ancora di più, dimostrando un’arretratezza a dir poco agghiacciante.
I superficiali motivi rintracciati dietro l’ampia diffusione dell’aborto selettivo sono di ordine sociale ed economico. Una figlia non eredita il nome della famiglia e non garantisce la continuità dinastica. La sua sola esistenza implica il gravoso costo della dote necessaria per darla in moglie. Come se non bastasse, una volta sposata, la giovane abbandonerà la famiglia per entrare a far parte – diventare proprietà – di quella del marito. Disagi del genere diventano ancora più gravosi in Cina, dove la politica del figlio unico significa che, con la nascita di una femmina, nessuno potrà prendersi cura dei genitori una volta divenuti anziani. Motivazioni in realtà del tutto superficiali che non colgono davvero il problema, celando la vera ragione per cui le bambine vengono sistematicamente eliminate prima di nascere.
Nei Paesi più problematici si è più volte tentato di introdurre leggi che ne impedissero la diffusione con numerose campagne di sensibilizzazione. E i risultati sono sempre stati scarsi, di certo non perché le persone sono troppo povere, perché i medici sono troppo facilmente corruttibili o perché sarebbe meglio non conoscere il sesso del nascituro. Questi non sono altro che effetti collaterali, conseguenze secondarie di un problema di fondo: la disparità di genere. Non sarebbe un problema la nascita di una figlia se anche le donne potessero ereditare il nome di famiglia e trasmetterlo alla loro prole, se i matrimoni fossero unioni tra pari e non il passaggio di proprietà di un essere umano da un nucleo familiare a un altro. Il vero problema non sono i disagi economici e sociali che avere una bambina comporta, perché quei disagi dipendono dal fatto che le donne non sono persone, non davvero, non al pari degli uomini.
E l’erronea attribuzione delle colpe dimostra una terribile arretratezza anche nel pensiero occidentale, che si erge a critico super partes in grado di giudicare l’arretratezza altrui e che, con arroganza, pecca di ipocrisia, perché non crede che quell’arretratezza sia la stessa su cui esso si fonda. Di uguale ambiguità, infatti, si macchiano i Paesi in cui l’aborto è vietato, in cui le donne non possono non desiderare una gravidanza, in cui l’etica, la morale e la religione sono tanto importanti da influenzare la legge, in cui la famiglia viene prima di tutto. Quei Paesi in cui una donna non può scegliere per il proprio corpo, ma in cui è possibile impedire la venuta al mondo di una bambina perché nascere femmina è un disonore.