Sembra ridursi tutto a uno scontro tra pro life e pro choice, a una semplice diatriba tra chi vuole parlare per un feto che non ha voce e chi vuole tutelare i diritti delle donne che una voce non ce l’hanno mai avuta, ma in realtà la dibattutissima questione aborto è molto più di questo. Alle spalle dell’eterno dibattito alberga l’insistenza di un sistema rigido ed esigente sul quale l’intera società umana sembra fondata. E alla costruzione e alla sopravvivenza dell’istituto patriarcale contribuiscono molti fattori: la cultura, la religione e addirittura l’inconscio, che agiscono talmente in profondità da avere la meglio anche su quella modernità nella quale crediamo di vivere.
Se da un lato la lotta al cambiamento, all’affermazione dei diritti e alla libertà non si ferma mai, dall’altro il fatto che ce ne sia tuttora bisogno spiega da solo quanta strada ci sia ancora da fare. La buona notizia degli ultimi tempi arriva dall’Argentina, che nella giornata di venerdì scorso ha visto l’approvazione alla Camera di una legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. La normativa prevede la legalizzazione dell’aborto fino alla quattordicesima settimana in un Paese in cui, fino a ora, esso è stato spesso negato anche nei casi in cui teoricamente concesso – stupro e pericolo di vita della madre – proprio a causa del timore per le ripercussioni che una pratica socialmente e legalmente condannata rischiava di comportare. In attesa dell’approvazione al Senato, una parte del popolo argentino è insorto dalla gioia, mentre un’altra piccola parte ha iniziato a protestare.
Quando si concedono i diritti alle categorie bistrattate c’è sempre qualcuno che interpreta il successo di uno come la sconfitta di un altro, come se l’acquisizione di quei diritti comportasse inevitabilmente anche una perdita e non ne giovasse di ritrovata umanità l’intera popolazione. Ma nel caso delle donne, oltre a bigottismo e arretratezza, in gioco entra un altro fattore profondamente radicato: la sottomissione. Incredibile ma vero, all’alba del 2021 sopravvive ancora la convinzione che le donne debbano essere sottomesse, controllate a tal punto che non possano decidere cosa fare del proprio corpo. È a causa di queste radicate convinzioni – che spesso sopravvivono silenziosamente latenti nei meandri dell’inconscio – che mentre in Argentina si approva il rivoluzionario progetto di legge, in Italia si affiggono manifesti che invitano a sottrarsi alla vergognosa pratica dell’aborto.
Nelle scorse settimane, due delle più moderne città italiane hanno visto i loro muri tappezzati da un cartellone pubblicitario di pessimo gusto. Per fortuna ormai rimosse, quelle immagini oscene non sono sfuggite al giudizio del tribunale del web, che ha condannato il loro messaggio a eterna vergogna, insieme ai Comuni di Roma e Milano che ne hanno permesso l’affissione e, naturalmente, a quanti hanno ideato una tale amenità. Proprio questi ultimi, infatti, si dicono dalla parte delle donne, in un ipocrita tentativo di dipingere la propria realtà come l’unica sana, quella secondo cui essere #profamiglia equivale a sostenere la popolazione femminile. Un’associazione piuttosto arbitraria, nata probabilmente dalla medievale convinzione che le donne possano trovare uno scopo solo all’interno del nucleo familiare.
Il messaggio che si è tentato di inviare da e alla cattolicissima Italia è molto chiaro: l’aborto è un male, uccide i bambini e uccide le donne, o perlomeno la loro purezza, la loro integrità, la loro ragione nel mondo. I caratteri cubitali di quel cartellone tentano di paragonare la pillola abortiva RU486 a un veleno, un letale intruglio che non solo uccide il figlio ma mette a rischio la salute e la vita della donna. Sorvolando sulla fake news presente nel messaggio – il farmaco non comporta rischi per la vita di chi lo assume, almeno non più di un qualunque altro farmaco – il suo scopo manipolatorio è piuttosto chiaro. Persuadere le donne a non abortire è certamente una pratica recente, nata quando malauguratamente hanno ottenuto abbastanza libertà da non poterglielo più imporre e dunque è divento necessario ridursi a convincerle, a doverci parlare. E la disperazione degli antiabortisti è tale da ricorrere a ogni mezzo persuasivo possibile. Ma a parte il messaggio, chiaramente illiberale e sessista, scritto a caratteri cubitali su quel cartellone pubblicitario, è bene analizzare la forma che si è tentato di dargli e i significati sottintesi, forse addirittura involontari, che inevitabilmente nasconde.
Una donna in abito bianco, dalla pelle candida e i capelli biondi, ma con le labbra rosso fuoco, è riversa al suolo e stringe ancora tra le mani la mela che con un solo morso le è stata fatale. Sembrerebbe quasi un riferimento alla fiaba di Biancaneve, in cui una giovane e ingenua ragazza si fida di una strega, del male, della cattiveria che non ha saputo riconoscere di un mondo che ancora non conosce. Un’immagine che sembra voler rappresentare le donne come poveri agnellini indifesi, ma che in realtà nasconde significati ben diversi. Quella mela, quel frutto che ha una storia ben più antica, profonda e radicata nella nostra cultura cattolica, è l’allegoria perfetta e inequivocabile del peccato. Una donna prima pura, integra e genuina, con quell’abito bianco che deve rappresentarne la verginità e la pelle chiarissima simbolo di limpidezza, diventa l’erede di quella peccatrice che non ha potuto resistere al fascino del frutto proibito, e non contenta diventa addirittura tentatrice, quando offre quello stesso frutto all’integro uomo che altrimenti sarebbe privo di macchie. A tradirla nella sua angelica immagine solo quelle labbra di un rosso talmente accesso che possono rappresentare unicamente una peccaminosa e indecente passione.
Alla fine è sempre questa la narrazione a cui si fa riferimento e che si ripropone continuamente sotto spoglie differenti, ma con lo stesso inevitabile significato. Una narrazione talmente radicata nella nostra cultura, nella nostra società e nelle nostre menti che non possiamo prescindere da essa. È d’altronde inevitabile pensare che una donna che abortisce custodisca una colpa imperdonabile, che in qualche modo in quella situazione ci si sia messa da sola. Poteva proteggersi, poteva astenersi, poteva rinchiudersi in casa e non frequentare uomo alcuno fino al giorno in cui non si fosse sentita pronta per sposarsi e adempiere allo scopo che c’è dietro il matrimonio e la sua stessa esistenza: la procreazione. Perché una donna può diventare chi vuole, può fare ciò che vuole, ma alla fine il suo unico reale scopo, l’unico motivo per cui essa esiste è avere figli. Nessun altro valore è riservato alle donne, nessun altro desiderio dovrebbero avere se non quello di diventare madri. È per questo che a lottare contro l’aborto non è solo il movimento pro life, che vede nell’interruzione di gravidanza un omicidio, ma anche quello pro famiglia. E quella famiglia oggi non è solo minacciata dall’esistenza delle coppie omosessuali che, oltre a esistere, osano avanzare la richiesta dei diritti, ma è osteggiata dalle donne che, nell’illusione dell’emancipazione, non credono più che il loro unico obiettivo si esaurisca nella maternità, che non vedono più nel ruolo di mamma la loro unica aspirazione. E, allo stesso modo, la colpa di un aborto è sempre della donna coinvolta, perché il concepimento si può anche fare in due, ma che una donna non voglia dei figli è un abominio inaccettabile.
Non vogliamo star qui a ripetere per l’ennesima volta che tentare di sottrarre alle donne il libero arbitrio con messaggi insulsi di questo tipo sia equivalente a negar loro i diritti, come sembra ancora consuetudine nel ventunesimo secolo. È quasi ridicolo che al giorno d’oggi si debba ancora combattere per affermare principi fondamentali, a partire da quello di autodeterminazione, dalla libertà di disporre del proprio corpo senza restrizione alcuna. Le radici di tali assurdità sono talmente profonde che è ancora necessario parlarne, che ancora compaiono manifesti al patriarcato sulle mura delle nostre città. Ma quei messaggi, che tanto stonano con la libertà, che stridono fastidiosamente a contatto con l’aria di questo secolo, sono ancora veicolati attraverso una retorica del passato, sono costruiti sulla stessa narrazione da cui è nato il patriarcato, a sua volta legittimato da religioni scritte dagli uomini e da gerarchie sociali create dagli uomini. Quegli stessi uomini che affermavano – e affermano – che la donna è inferiore e serve solo a procreare, quell’unica cosa che loro da soli non possono fare.