È assurdo quanto sia facile negare un diritto anche quando ufficialmente riconosciuto. La sua esistenza formale, in effetti, non significa necessariamente essere liberi di avvalersene. Per rinnegarlo basta recintarlo, ingabbiarlo nelle inferriate ideologiche in modo che diventi difficile da raggiungere, esattamente come sta accadendo in questi giorni in Umbria con la delicata e da sempre ostacolata questione aborto.
Lo scorso 11 giugno, la giunta regionale ha abrogato la delibera che permetteva l’aborto farmacologico – evitando cioè il ricorso alla pratica chirurgica – in day hospital, costringendo le umbre a tornare ai tre giorni di ricovero previsti in precedenza. Giustificata come una misura presa per la sicurezza e la salute delle pazienti – in un periodo in cui, tra l’altro, la permanenza all’interno degli ospedali è da evitare quando possibile – la decisione di stampo leghista ha in realtà il sapore di un ostacolo alla libertà delle donne di abortire e di disporre del proprio corpo come meglio credono.
In Italia, l’interruzione volontaria di gravidanza è diventata legale nel 1978 e, da allora, è sempre rimasta un diritto ufficialmente riconosciuto. Eppure, la libertà di usufruirne non tutela necessariamente l’accesso all’aborto, spesso impedito da condizioni avverse o, per meglio dire, da uno Stato che lo tollera come diritto ma non fa in modo che sia effettivamente garantito a tutte. Usufruirne, infatti, è spesso molto complicato: in Umbria, l’aborto farmacologico non è praticato in nessuno dei centri ospedalieri delle città più grandi, è disponibile solo a Narni e Orvieto in ricovero di tre giorni ed era solo una la struttura in tutta la regione a permettere il day hospital. Non sorprende, allora, che solo il 5% delle donne umbre riuscisse ad accedervi e tutte le altre fossero costrette a recarsi fuori confine.
In realtà, in Italia la possibilità di IVG farmacologica in day hospital riguarda solo poche regioni: Lombardia, Lazio, Emilia-Romagna, Toscana e, fino a poco fa, Umbria. La pratica nostrana, infatti, non si è ancora realmente adeguata al regime ambulatoriale in uso nella maggior parte dei Paesi europei e l’opzione del day hospital è stata inserita solo l’anno scorso nelle cinque regioni sopracitate. Ma le buone intenzioni di espanderla anche nel resto dello Stivale si sono arrestate con i passi indietro fatti dall’Umbria.
L’importanza di un ricovero breve e la possibilità di una ripresa veloce in seguito all’interruzione di gravidanza non riguardano solo il diritto sanitario delle donne, ma hanno anche tanto a che fare con la cultura di un popolo ancora troppo sessista nelle parole e nei fatti. Proprio perché si tratta di una libertà tuttora illegittima nell’ideologia della maggior parte degli italiani, e proprio perché questa società non è evidentemente in grado di auto-educarsi e di liberarsi dei costrutti retrogradi su cui si fonda, almeno il diritto di abortire in sicurezza e nel più efficiente dei modi non dovrebbe essere osteggiato, ma garantito in modo che al peso del giudizio sociale non si aggiungano anche le difficoltà pratiche.
Il provvedimento umbro, invece, non fa altro che aggiungere un ostacolo in più alla faticosa marcia verso la parità, mascherandosi però da attenzione e cura alla salute delle pazienti. Un alibi che regge ben poco, considerando la direzione presa dagli altri Paesi comunitari e le direttive del Consiglio Superiore di Sanità e dell’Agenzia europea del farmaco, direttive in realtà non rispettate pedissequamente in Italia, dove non solo il day hospital non è garantito, ma il limite di somministrazione del farmaco si ferma a 7 settimane di gravidanza invece che a 9. Ma oltre le linee teoriche, molti esempi pratici dimostrano l’efficacia della procedura: in primis il Regno Unito che, durante il più grave picco della pandemia, ha disposto la somministrazione domiciliare del farmaco mifrepistone permettendo di fatto alle donne di abortire da casa, con il supporto della telemedicina, ed evitando la permanenza negli ospedali e nei luoghi di contagio.
In più, come se gli ostacoli non fossero abbastanza, il nostro Paese è lieto ospite anche di un altro fenomeno che minaccia i diritti delle donne: l’obiezione di coscienza. In Italia, infatti, il 70% dei ginecologi che operano negli ospedali è obiettore, rendendo ancora più difficile l’accesso alla IVG. Il problema che ruota intorno all’aborto, dunque, risiede evidentemente nel fatto che si tratti di una pratica ancora largamente discussa, di un diritto che non è realmente ritenuto tale. In effetti, risulta impossibile anche solo trovare una definizione univoca, scientifica o meno, che metta tutti d’accordo, ma solo termini in antitesi: interruzione di gravidanza o omicidio, diritto o abominio. Forse il vero abominio è la necessità di ostacolare la libertà, di osteggiare quei diritti a fatica conquistati ma mai realmente approvati, come quello di disporre del proprio corpo e di prendere le proprie decisioni in autonomia, evidentemente negato alle donne. Ecco allora che quando non si riesce a eliminare un diritto formalmente riconosciuto, il modo migliore per negarlo è renderne difficile l’accesso.