Il Premio Nobel per la Letteratura del 2021 va ad Abdulrazak Gurnah, scrittore originario della Tanzania, giunto in Inghilterra giovanissimo (ad appena diciotto anni) come rifugiato. Negli anni Sessanta, a Zanzibar, si consumava una sanguinosa rivolta atta a rovesciare il sultanato arabo. L’oppressione coloniale subita da gran parte della popolazione per mano dell’oligarchia vicina al sultanato sfociò nella repressione violenta degli arabi di Zanzibar. Gurnah sfuggì al massacro trovando riparo proprio in Inghilterra, paese sul quale ricade ancora oggi una grossa responsabilità rispetto all’impoverimento e all’instabilità politica di molte realtà africane, risultato di politiche imperialiste e interessi economici scellerati perpetuati sin dai tempi della tratta schiavista.
La motivazione del riconoscimento è da ritrovarsi nella capacità di Gurnah di penetrare con intransigenza e misericordia gli effetti del colonialismo e il destino del rifugiato nel solco tra due culture e due continenti. L’indagine post-coloniale di Gurnah è vocazione che permea i suoi romanzi e la sua carriera di studente e professore all’università del Kent. Nonostante la sua lingua madre sia lo Swahili, Gurnah ha sempre scelto di adoperare l’inglese nelle sue opere. Questa decisione lo allinea, forse, alla scuola di pensiero degli scrittori provenienti dalle aree dell’ex impero britannico i quali scorgono, nell’uso della lingua del conquistatore, non una conferma del proprio assoggettamento, ma una possibilità di riscatto e di diffusione di conoscenze altrimenti perdute. Questi scrittori, pur interrogandosi sul valore politico della loro scelta, sfruttano la lingua anglosassone come megafono per far udire la propria storia a un mondo che, altrimenti, non li ascolterebbe e negherebbe loro il riconoscimento.
Nell’opera di Gurnah la vicenda privata ha altrettanta rilevanza di quella letteraria: l’autore ha dichiarato in passato di trarre ispirazione dalla memoria vivida e indelebile della sua esperienza di soggetto coloniale, marginalizzato. Esplora, nei suoi romanzi, tematiche care alla letteratura post-coloniale già da Fanon, come la frammentazione dell’io e la percezione del soggetto come identità ibrida. Un’eredità, questa, comune agli abitanti dei territori delle ex colonie come ai rifugiati, agli stranieri, ai diversi d’Europa. In questa accezione, il solco individuato dall’Academy svedese è scavato anzitutto e primariamente da una scelta linguistica che, non essendo materna, mette chi scrive costantemente a contatto con la propria incompiutezza.
Il Premio Nobel alla Letteratura di quest’anno arriva in un clima di particolare asprezza e paura. Un’Europa codarda piantona i propri confini, ossessionata e inorridita dall’idea che orde di rifugiati in fuga da un destino arido di morte possano far breccia nelle mura della sua solida fortezza e ricordarle, con la loro sola esistenza, dei suoi due volti: quello che si batte per i diritti umani e civili ed elargisce riconoscimenti per l’inclusione e quello che respinge con violenza, si volta dall’altra parte mentre centinaia, migliaia di persone, affogano in mare. Quest’anno, erano moltissimi i nomi in lizza ben più noti di quello di Gurnah (almeno in Italia). Il toto-Nobel annoverava, fra questi, addirittura Margaret Atwood e Murakami Haruki, scrittori la cui fama è preceduta e consolidata dalle milioni di copie vendute e dalle produzioni cinematografiche e televisive ispirate ai loro lavori. La proclamazione di Gurnah è stata accolta, da noi, con una certa sorpresa e con un pizzico di presunzione.
Interpretiamo, infatti, l’assegnazione di questo premio allo scrittore africano (solo il quinto nella storia del Nobel) come un invito alla riflessione. Raggiunto al telefono subito dopo la nomina dall’inviato del Premio Nobel Adam Smith, Gurnah ha definito l’atteggiamento politico dell’Europa nei confronti dei rifugiati come “spilorcio”. Ha ricordato che le migrazioni fra popoli sono sempre esistite e che, anzi, sono proprio gli europei ad aver esplorato e usurpato mondi altri in passato. Se vogliamo, le migrazioni di persone dall’Africa sono un fenomeno recente e quasi completamente legato all’azione coloniale. Gurnah invita a pensare all’immigrazione come a una forza, agli individui che arrivano da un altro paese con il proprio bagaglio di cultura e di vita diverse, come ricchezze: non sono persone che vengono a prendersi qualcosa, sono persone che vengono a dare qualcosa di sé. Come fece lui.