Ci sono epoche e luoghi in cui essere nessuno è più onorevole che essere qualcuno. È questo che ho pensato venerdì scorso quando il sole è andato a morire a Ovest. Ovunque, in tv, suoi quotidiani, sui social, le foto iconiche tratte da Il racconto dell’Ancella sintetizzavano quanto stava appena accadendo negli Stati Uniti d’America: nella più grande democrazia del mondo la Corte Suprema rendeva illegale l’aborto sicuro. Rendeva illegali le donne che si autodeterminano. Il loro diritto alla scelta.
Mentre succedeva questo, però, a molti chilometri da Washington ma a pochi da me, si era già consumata un’altra tragedia, un’altra tipica di un tempo che non dovrebbe ma è oggi. Eppure, per quasi un giorno, nessuno ne aveva parlato.
A Melilla, enclave spagnola in Marocco, tutto era sangue. Era sangue sin dalle 8:30 del mattino, quando circa 1500 migranti, o forse più, avevano tentato il loro assalto alla recinzione di confine per entrare in Europa. Poco prima, alle 6:40, la Guardia Civile era stata allertata della massiccia incursione, ciononostante più di qualcuno (forse in 130) era riuscito comunque a fare il suo ingresso in territorio spagnolo dalla barriera di Barrio Chino, a sud-est di Melilla. Per gli altri, per tutti gli altri, si era consumata una vera carneficina. Eppure, fino alle 16, le autorità marocchine non avevano comunicato la notizia. Tuttavia, era impossibile non vedere. Era impossibile non sapere. Era impossibile non sentire l’olezzo.
A Melilla, tutto era sangue. Sangue sulla testa, pelle lacerata, piedi rotti, mani, corpi ammassati. Corpi deformi. Corpi insozzati. Corpi ovunque. Schiacciati, agonizzanti, morti. Nella calca in 37 hanno perso la vita, in 300 si sono i feriti, ma i numeri – in questi casi – non fotografano mai la realtà. Mai se le stime ufficiali vanno al ribasso e le organizzazioni non governative puntualmente smentiscono. «Chi non è morto finirà per morire, perché è stato picchiato molto» dicono i superstiti. Per ora, l’unica certezza sono le immagini, quelle che pian piano stanno cominciando a circolare e a puntare il dito contro la solita, brutale, Fortezza Europa. Quella che alla crudeltà ha risposto glaciale, ancora una volta: «Le violenze e le vittime sono oggetto di seria preoccupazione». Oggetto e preoccupazione. Nella stessa frase, riferite a una mattanza, queste due parole suonano forti e sconnesse, vuote e circostanziali, un muro di gomma che rimanda al mittente le colpe. La colpa di aver tentato. La colpa dell’autodeterminazione. La colpa della scelta.
Anche il governo spagnolo si è «rammaricato per la perdita di vite umane, in questo caso di persone disperate che cercavano una vita migliore e che sono vittime e strumenti di mafie e criminali che organizzano azioni violente». Poi, però, ha ribadito il suo sostegno al Marocco, che «combatte e subisce l’immigrazione irregolare» aiutando la Spagna a mantenere la propria integrità territoriale. Tutte vittime, nessuna vittima. È questa l’operazione messa in atto da Pedro Sánchez e i suoi, che hanno addirittura lodato la cooperazione della gendarmeria marocchina, per poi fare un passo indietro – ma senza scontentare nessuno – affermando che al momento di tali dichiarazioni non erano ancora state visionate le immagini che tutto raccontano tranne che di una collaborazione tra le parti. O, meglio, per come la intendiamo noi.
Se, infatti, per il Premier socialista il respingimento violento è mutuo soccorso, non c’è dubbio che è di questo che si è trattato venerdì: di cooperazione, di messa in atto di un piano che l’Europa, nel Mediterraneo come nella rotta balcanica, porta avanti da tempo, nonostante la preoccupazione di facciata. Intanto, le autorità marocchine continuano a non collaborare nella ricerca di verità e di chiarimenti in merito a un massacro che sembra ben distinguere tra persecutori e perseguitati, tra la mano armata e la mano spezzata.
Quello di venerdì è stato il primo grosso assalto da quando il Paese africano e la Spagna hanno stretto un accordo che favorisce apertamente la proposta di autonomia marocchina per il Sahara occidentale (ex colonia madrilena), a discapito del referendum di autodeterminazione voluto dal Fronte Polisario. Una mossa importante che ha ribadito il ruolo che il Marocco esercita nella politica interna ed estera spagnola.
Le relazioni tra i due Paesi, infatti, sono molto strette. Madrid è il primo partner commerciale di Rabat, i residenti marocchini in Spagna raggiungono il milione, Ceuta e Melilla, sulla costa africana, sono storicamente enclave iberiche. Il 2020, in particolare, si era rivelato un anno molto importante per questi territori. Dopo un cessate il fuoco durato trent’anni, infatti, nel bel mezzo della pandemia era ricominciato lo scontro tra le autorità marocchine e gli uomini del Fronte Polisario, che l’ONU riconosce come rappresentante legittimo del popolo sahrawi che abita alcune aree del deserto. Il conflitto era iniziato, in realtà, nel 1975, quando il Marocco aveva annesso il Sahara occidentale dopo il ritiro spagnolo dalla regione. Poi, nel 1991, promettendo un referendum che non ha mai avuto luogo, le Nazioni Unite avevano posto fine allo scontro armato. In questi anni, il governo marocchino ha concesso sussidi e agevolazioni fiscali, spostandosi sempre più verso la costa atlantica. Un modo che – quando non è stato violento (e lo è stato eccome) ha cercato di dissuadere gli oppositori, lasciando scemare la consultazione popolare.
L’area marocchina è, chiaramente, la più benestante grazie a un sottosuolo ricco e alla presenza dei principali centri urbani. Il Fronte Polisario, in cambio, è relegato a una porzione di territorio inospitale e povera di risorse. Così, dicevamo, dopo quasi trent’anni gli scontri armati erano ripresi, «incoraggiati dall’inazione della comunità internazionale». Ad appiccare il fuoco aveva contribuito persino Donald Trump riconoscendo la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale nell’ambito degli Accordi di Abramo che avevano ratificato anche Israele. Con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca la posizione USA non è cambiata e anche la Germania e la Francia hanno scelto la stessa via, sulla scia di quanto ha poi fatto Sánchez nei mesi appena trascorsi, proiettato verso l’aggiornamento del Trattato di Amicizia, Buon vicinato e Cooperazione del 1991 che vedrà – anche – la lenta riapertura delle frontiere, chiuse ufficialmente per l’emergenza Covid.
Questa svolta, tuttavia, ha significato non poco malcontento nella maggioranza spagnola, in particolare sul fronte Unidas Podemos, storicamente vicino alla questione saharawi. Il Parlamento, inoltre, ha votato proprio in questi giorni una mozione che ratifica il sostegno al referendum di autodeterminazione nel Sahara occidentale seguendo le risoluzioni ONU: i socialisti sono stati gli unici a votare contro.
I malpensanti dicono che questa apertura ha a che fare con la guerra ucraina. L’Algeria – che è la principale sostenitrice del Fronte Polisario – copre il 47% del fabbisogno di gas spagnolo e punta, vista la posizione di Madrid, a un aumento dei costi. Nel frattempo, proprio a causa della crisi energetica, l’Italia e l’Europa hanno aperto a importanti relazioni con il Nord Africa, grande produttore di energie rinnovabili. La Spagna, dunque, è a metà tra due fuochi e, al momento, almeno Sánchez ha chiarito la sua posizione. Letti in quest’ottica, allora, il rammarico del Premier e la preoccupazione delle Unione Europea sembrano spiegarsi senza lasciare spazio ai dubbi: l’economia prima delle persone. I soldi in cambio della vita. Ecco chiarito, così, anche il rapido occultamento dei cadaveri.
L’Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH) ha denunciato, infatti, la corsa al seppellimento dei morti: nessuna autopsia o indagine, nessuna identificazione. Soltanto corpi impilati, vigilati da gendarmi marocchini in assetto antisommossa, e fosse comuni. Anonime. Così, per i dannati della Terra, mancano persino i necrologi, la prima forma attraverso cui, in Occidente, i morti vengono umanizzati e riconosciuti. Non quando si tratta di migranti.
Il salto de la valla, le due barriere che dividono il Marocco dall’Europa, sorvegliate da agenti della Guardia Civil, per Sánchez, è stato un assalto violento. Di violento, invece, c’è stato soltanto il suo atteggiamento, l’atteggiamento della Spagna che – ancora una volta – ha fatto ricorso alle devoluciones en caliente, respingimenti rapidi che consentono alle autorità del Paese di espellere i migranti senza prenderne le generalità e senza consentire loro di fare richiesta di asilo o altri tipi di protezione.
Prima del 2015, questi respingimenti immediati erano condannati dalle organizzazioni non governative e definiti una violazione dei diritti umani e della legge internazionale. Quest’ultima, infatti, non obbliga gli Stati ad accogliere i migranti che cercano di superare le frontiere per ragioni economiche o sociali, ma garantisce ampie protezioni ai rifugiati, secondo la Convenzione di Ginevra del 1951. Tutto quello che, in pratica, le devoluciones calientes negano senza appello. Eppure, questa modalità di intervento è stata persino codificata dalla Ley Orgánica de protección de la seguridad ciudadana, approvata dal governo conservatore di Mariano Rajoy che, per la prima volta, ha introdotto il respingimento alla frontiera, prevedendo un regime speciale proprio per le enclave in Marocco.
La legge stabilisce che i migranti individuati sulla linea di frontiera di demarcazione territoriale di Ceuta o di Melilla mentre cercano di superare gli elementi di contenimento per attraversare irregolarmente la frontiera potranno essere rifiutati con il fine di impedire il loro ingresso illegale in Spagna. Come se la valla, costruita con l’obiettivo di ostacolare l’arrivo degli africani in territorio spagnolo, fosse nei fatti terra di nessuno. Dopo una lunga trafila, la Corte Costituzionale prima e la Corte di Strasburgo poi ne hanno validato la legittimità e ancora oggi, che al governo c’è la coalizione che ne parlava come di ley mordaza, legge bavaglio, la norma è in vigore e viene tuttora messa in atto, come a Melilla venerdì scorso. A Melilla, però, tutto era sangue.
Ecco che, allora, ci sono epoche e luoghi in cui essere nessuno è più onorevole che essere qualcuno. Che essere Sánchez o l’Unione Europea. Che essere gli Stati Uniti o chiunque neghi il diritto all’autodeterminazione. Alla scelta. Alla vita. Epoche e luoghi in cui essere un migrante significa opportunità se si è bianchi (oggi ucraini) e zavorra se si è neri. Perché è il colore della pelle, ancora, l’unica cosa che conta.