A che serve votare? Il più classico dei cliché in merito alle elezioni politiche vuole che questa domanda assuma la forma della retorica pensando alla scarsa qualità dell’offerta. Destra o sinistra non fa differenza. Da tanti, troppi anni, ormai, apporre la X su un qualunque simbolo della scheda elettorale coincide con un malessere provocato dall’annosa sensazione che, comunque vada, non ne verrà nulla di buono.
Con questi presupposti, è difficile spiegarsi a cosa serve votare, è difficile convincersi, cercare (e trovare) ogni volta una motivazione che zittisca il proprio spirito ferito e spinga le gambe fino al seggio vicino. Questa volta, però, non è la triste natura dei rappresentanti dei partiti a mettere al centro del dibattito la questione, ma la composizione delle Camere all’indomani dell’inutile voto. Di fatto, la disposizione dei seggi è avvenuta già.
La scorsa settimana, infatti, le liste dei candidati sono state depositate dai leader politici, elenchi compilati scientificamente con un unico scopo: decidere chi dovrà entrare in Parlamento. Agli elettori, il prossimo 25 settembre, non resterà che il compito di convalidare la cosa.
La Legge Rosato – la normativa elettorale attualmente in vigore – è uno degli ultimi regali che il governo Gentiloni ha lasciato al Paese, una direttiva che rende impossibile all’elettorato scegliere da chi farsi rappresentare. Tra collegi uninominali eletti con sistema maggioritario e collegi plurinominali con sistema proporzionale (con listini bloccati), i partiti hanno in loro potere la possibilità di stabilire a chi andranno i 400 seggi della Camera dei Deputati e le 200 poltrone del Senato. Come? Proviamo a entrare nel dettaglio di alcune mosse strategiche.
Il Rosatellum prevede che 147 dei 400 seggi alla Camera e 74 dei 200 al Senato vengano eletti con un sistema che escluda completamente la rappresentanza della minoranza, motivo per cui personalità come Silvio Berlusconi, Carlo Calenda, Luigi Di Maio e la favorita nei sondaggi, Giorgia Meloni, si sono assicurati il posto nel prossimo emiciclo senza che alcun cittadino, anche d’accordo a votare per la coalizione che li rappresenta ma in simpatie verso altri rappresentanti, potrà evitare che il proprio voto vada a ratificare la posizione dei leader.
La storia si ripete – in verità – anche per quanto riguarda i collegi eletti con il proporzionale. I listini bloccati e l’impossibilità di effettuare il voto disgiunto porteranno la matita degli elettori a favorire, in primo luogo, i capolista di quegli schieramenti. Non è certo per il brivido della sfida che personaggi di prim’ordine quali Enrico Letta, Matteo Salvini, Giuseppe Conte e Matteo Renzi abbiano iscritto il proprio nome in queste griglie. Anzi, la possibilità di ripetere la propria candidatura su più collegi consentirà loro di assicurarsi una poltrona che vengano eletti a Milano piuttosto che a Napoli o – come nel caso di Salvini – tripla chance: Milano, Basilicata o Calabria.
Dunque, a che serve votare? Mai come per questa tornata, i partiti hanno messo le mani su ogni seggio disponibile, complice anche il taglio della rappresentanza proposto dal MoVimento e approvato nel 2020. L’unica variabile resta ancorata alle percentuali di voto, che determineranno quante di quelle poltrone prenotate verranno effettivamente riempite. Da chi, però, è un disegno già scritto. La scheda, per ciascuna camera, è unica, maggioritario più proporzionale. La competizione – a conti fatti – è già chiusa.
Non fosse seria, la situazione sarebbe da definirsi drammatica. L’attuale legge elettorale toglie ai rappresentanti dei territori la possibilità di rappresentare i propri concittadini. Dovesse – ad esempio – occupare il seggio della Basilicata Matteo Salvini, come potrebbe conoscere, e dunque difendere, le istanze del territorio lucano? Lui, nato e cresciuto a Milano. Stesso discorso dicasi per Conte in Campania (in una competizione da gallo cedrone con Di Maio), Renzi a Monza o Calenda in Piemonte. Lo scranno che questi signori andranno a occupare toglierà posto a un candidato nativo di quelle terre, posto in fondo alla lista al solo scopo di raccogliere i voti della sua gente.
E, allora, a che serve votare? Forse a nulla, è vero, e non dev’essere un caso se l’unico partito in odore di maggioranza resta quello dell’astensione, sempre in crescita. Alla luce di quanto appena descritto, quale interesse può avere un abitante di piccolo paese di provincia in Calabria a recarsi alle urne e offrire il seggio che starebbe a rappresentare quel territorio a un tizio qualunque nato e cresciuto nella pianura padana? Al Sud, dove i problemi e le necessità non sono le stesse della provincia milanese e ancora troppe questioni sono di carattere locale, questo tema è centrale più che in qualsiasi altra zona d’Italia.
Negli ultimi trent’anni la politica si è impegnata a personalizzare il voto come non mai, a porre i leader in vetrina a discapito della rappresentanza dei territori. Anche i cari vecchi congressi non hanno, così, più senso di esistere, il loro ruolo viene completamente svilito. Pure stavolta, i partiti si sono dimostrati incapaci di guardare alle belle e sane realtà che – spesso – rappresentano la salvezza di intere aree del Paese, aggregazioni spesso coincidenti con le sedi locali di quegli stessi simboli che, una volta chiusi nelle stanze romane, non guardano più oltre le finestre dei palazzi governativi. La discussione sul presidenzialismo dimostra esattamente questo sopra: scompare la società.
Scompare la società ma sparisce anche la militanza, affidata alle sole associazioni, ai presidi culturali, alle cooperative, circoli in grado di intercettare le necessità delle periferie e di farsene carico, spesso salvandole dall’oblio, dal dimenticatoio a cui la politica li destina ogni giorno, anche – e soprattutto – con scelte come quelle sulle liste che andranno al voto.
Quindi – ce la posso fare – a che serve votare? Serve a non cedere, a trattenere ancora lo scettro del potere nelle mani del popolo, a lasciarsi uno spiraglio di luce, un sussulto di rivoluzione che, chissà, prima o poi arriverà. E non sarà mai troppo tardi.