Le parole non sempre sono utili all’amore, anzi lo ostacolano, spesso, o lo rendono irrealizzabile. Gli esseri umani organizzati in società hanno bisogno di certezze materiali, razionalizzano perfino i sentimenti, codificano su cosa è o non è amore e su quali comportamenti possono essere accettati nella vita di relazione, senza disturbare il funzionamento dei ruoli sociali e dell’ordine costituito.
È quello che succede anche nell’ambientazione storica de La forma dell’acqua, il film del regista messicano Guillermo Del Toro, vincitore del Leone d’Oro alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2017 e candidato a ben tredici Premi Oscar.
La vita della giovane Elisa (interpretata da una straordinaria Sally Hawkins), muta e povera addetta alle pulizie in un laboratorio statunitense dove si lavora a un progetto top secret, nel 1963 e in piena Guerra Fredda, è monotona, ripetitiva, ai margini della considerazione umana e sociale, se non fosse per la schietta amicizia della compagna di lavoro Zelda (Octavia Spencer), anch’essa discriminata per il colore nero della sua pelle, e per la presenza dell’anziano Giles (Richard Jenkins), artista omosessuale che deve accontentarsi di vendere le sue capacità espressive alla pubblicità.
Per caso, la giovane viene a conoscenza del segreto scientifico: lo studio di una creatura anfibia che proviene dalla lontana Amazzonia e che potrebbe tornare utile per la sfida nella corsa allo spazio tra USA e URSS. Ci stanno lavorando lo spietato agente governativo Strickland (Michael Shannon) e lo scienziato doppiogiochista Hoffstetler (Michael Stuhlbarg), che fa la spia per i sovietici, ma al tempo stesso è votato alla “purezza” della ricerca, di cui non importa niente né agli americani né ai loro nemici.
Il “miracolo” avviene – o forse si svela l’intima natura del mondo sentimentale – quando tra Elisa, che si esprime con il linguaggio dei segni, e la misteriosa creatura si instaura, prima con difficoltà e poi con crescente entusiasmo, una relazione tenera e complice, basata sul comune sentire la condizione di sofferenza e la voglia di evadere dalla prigione-laboratorio, specchio fedele dell’esterna e ipocrita società del benessere materiale e del malessere esistenziale.
Aiutati da Zelda e Giles, i due amanti “non politicamente corretti” tenteranno di scappare verso il mare, per trovare nella forma liquida dell’elemento originario quella accoglienza che il mondo edificato dagli esseri umani non sa dare a chi non è dotato delle “normali” fattezze fisiche e non sa recitare secondo le regole della ruffiana e brutale messinscena societaria.
Nella sua opera, Del Toro mischia e sovrappone i generi cinematografici che ha frequentato nella sua filmografia precedente, dal fantasy all’horror, fino al thriller, con una sottotraccia dedicata alla critica sociale e politica. Alcuni commentatori, pur apprezzando il risultato estetico eccellente, a parte qualche effetto speciale sopra le righe, hanno sottolineato che La forma dell’acqua nel complesso perde il confronto, e non poteva essere altrimenti, con altre opere che si sono esercitate sul tema de La bella e la bestia, a cui rimanda, anche se non direttamente, la storia trattata in questa pellicola.
La favola poetica sull’amore che supera le gabbie delle determinazioni fisiche, sociali e politiche, comunque, è mossa da una sincera tensione ideale e narrativa. Questa non sembra tanto rivolta all’aspetto consolatorio quanto alla consapevolezza dell’incessante e forse inarrestabile perdita di umanità che caratterizza quel disagio della civiltà di freudiana memoria, nel quale la ricerca di una maggiore sicurezza porta a una minore felicità nelle relazioni tra le persone all’interno del mondo vitale.