In questa Italia scoraggiata, dove i licenziamenti abbondano e le nuove leve continuano a non trovare lavoro, c’è una voce fuori dal coro, quella di Enrico Loccioni. Imprenditore marchigiano, ha fondato nel 1968 il gruppo che porta il suo nome. Impresa a conduzione familiare, la Loccioni ha visto il suo sviluppo grazie al lavoro di Enrico e di sua moglie Graziella, cuore e mente di un progetto che avanza, anche in periodo di crisi.
Abbiamo voluto incontrarlo per scoprire i motivi del suo ottimismo e i segreti del suo successo.
Enrico, Lei proviene da una famiglia contadina. Partendo da zero è riuscito a fondare un’impresa che adesso conta ben quattro sedi all’estero. Cosa ha acceso la scintilla e cosa ha alimentato, nel tempo, questo grande sogno?
«Se sbobino questi cinquant’anni, la spinta per il progetto, impensabile fino a qualche anno fa, è stata sempre l’autonomia. In questo riconosco trasversalità in tutto il percorso della mia vita, fin da piccolo: me la son sempre cavata da solo. Il periodo di scuola media l’ho vissuto con zii senza figli che mi lasciavano una certa indipendenza nel quotidiano come nello studio. Non ho mai vissuto questa “libertà” come sacrificio: per me è stata una scelta.»
Nel libro che La racconta, 2Km di Futuro. L’impresa di seminare bellezza, si legge del Suo impiego presso un calzaturificio. Lì ha scoperto per la prima volta la Sua insofferenza nell’essere sottoposto a qualcuno. Quanto ha contato l’esperienza da dipendente per formare l’imprenditore che è oggi?
«Come restituzione di quello che abbiamo imparato negli anni, posso dire che esistono due categorie: gli spettatori degli eventi e gli attori degli eventi. Io ho sempre preferito la seconda. Fare cose che dipendono da te è molto meglio che sviluppare progetti che dipendono da terzi. Sono giunto a questa consapevolezza soprattutto grazie a due esperienze, le più negative o, per lo meno, quelle che mi hanno dato ulteriore supporto all’indipendenza. Una è stata proprio quella presso la fabbrica di scarpe, dove il tempo era cadenzato dalla manovia. L’altra, il servizio militare nel ’70 tra Rieti, Rimini e Falconara, quando mi affidarono compiti di vigilanza. È stata l’attività più noiosa che mi sia capitata: passai un anno intero a fare sempre le stesse cose, senza nessun obiettivo, senza costruire niente, a guardare l’orologio aspettando che il tempo passasse.»
Dalla Sua storia personale, nel rapporto che ha con i collaboratori risulta piuttosto all’avanguardia. Crede che a questo possa contribuire il Suo passato da dipendente?
«Il primo obiettivo di impresa e imprenditore è economico: un’impresa che non realizza il profitto finisce in tribunale e manda a casa le persone. Ma bisogna trovare una giusta formula che consenta di raggiungere l’utile senza compromettere il rapporto con i propri collaboratori. Personalmente, posso dire di aver realizzato il mio obiettivo, non solo dal punto di vista economico. Ho potuto farlo seguendo dei valori, primi fra tutti trasparenza e rispetto. Da parte del lavoratore, quello che oggi si raccomanda, quello che anche il professor Giorgio Fuà raccomandò a me, è che si metta sempre più la vita in parallelo. Lo studente, per esempio, mette tutto il suo percorso in serie, perché deve raggiungere gli obiettivi del buon diploma, della buona laurea e così via, ma quelli sono mezzi, non fini. Dietro c’è la vita lavorativa. Se l’approccio al lavoro avviene durante il suo percorso di studi è molto meglio perché la persona può scegliere. E se la persona non si fa scegliere, ma sceglie il lavoro, la qualità della vita è completamente diversa.»
Qui rientriamo in quello che dicevamo prima: la Sua esigenza di autonomia. In questo senso, il profitto garantisce l’indipendenza…
«Raggiungere un buon profitto significa rendersi autonomi da un sistema, come la banca, che presta del denaro ma da cui non si può sempre prescindere, soprattutto se si inizia da zero. In quel caso, infatti, entrano in gioco altre problematiche, perché il denaro si presta a chi sai potrà ridartelo e, soprattutto all’inizio, si hanno meno garanzie da offrire. La fiducia bisogna guadagnarsela: la reputazione non si trova al mercato. La cosa positiva è che si può costruire a qualsiasi età e in ogni contesto: in casa, con l’insegnante, nell’ambiente di lavoro. La fiducia è uno strumento di conquista.»
Secondo Lei, qual è l’elemento indispensabile per riuscire a ottenerla?
«Ciò che è veramente importante è avere la capacità di separare l’emozione dai fatti, scegliere di chi fidarsi e farlo.»
Nella Sua azienda assume molti giovani. Non crede sia rischioso affidare compiti di grande responsabilità a ragazzi ancora inesperti?
«Non credo. I giovani che vengono da noi sono persone qualificate scelte con criteri specifici e il rapporto è chiaro fin dall’inizio. La fiducia non è fatta per grado o per età. È rispetto, ma non è gerarchico, anzi: se c’è rapporto gerarchico non si può instaurare. C’è fiducia anche tra insegnante e allievo, che hanno età e posizioni diverse. La fiducia serve innanzitutto come base su cui costruire dei legami e i giovani sono l’energia di questa impresa.»
La Loccioni è un’azienda che guarda al futuro, proponendosi di fare previsioni che arrivano fino al 2068. In questa corsa contro il tempo non si rischia di lasciare indietro qualcosa?
«No, perché il lavoro di guardare avanti è un impegno: se noi non progettiamo il futuro, non abbiamo modo di frequentarlo. Ma il futuro si progetta molto guardando al passato. Come direbbe il designer giapponese Isao Hosoe, più l’arco si tira indietro più la freccia arriva lontano. Anche in questo caso il rispetto dei valori è una costante, ma non vale solo oggi perché siamo nell’era della comunicazione.»
Guardando al Suo di passato, ai momenti difficili che avrebbero portato altre persone a mollare, chi o cosa L’ha spinta a non demordere?
«L’impegno che ognuno prende con se stesso e con i soggetti con cui porta avanti un progetto. Siamo all’applicazione dei valori di base che noi utilizziamo per lavorare insieme, partendo dalle quattro virtù cardinali a cui invitava già Platone: prudenza, giustizia, temperanza e fortezza. Non ritirarsi di fronte agli eventi fa parte dell’essere una persona corretta. Inoltre, la nostra forza è collettiva: siamo una famiglia. Mia moglie Graziella e io abbiamo costruito tutto questo insieme, sostenendoci sempre a vicenda.»
Si sente tanto parlare di crisi o di aziende che falliscono. A Suo avviso, cosa manca all’imprenditoria italiana di oggi?
«Non so cosa manchi all’imprenditoria e non ho ricette da proporre, però posso sottolineare i punti di forza del nostro percorso. Innanzitutto, nelle aziende non si parla mai del cliente. Cliente siamo tutti noi, è la domanda del mercato. È essenziale fare impresa seguendone le richieste. Molti falliscono perché non cercano clienti, ma finanziamenti. Senza i primi, però, non si ha futuro e, allo stesso tempo, se non si sanno scegliere validi collaboratori, non c’è domani. È poi importante far tesoro dei grandi esempi che offre il nostro territorio, come il modello d’impresa Olivetti. E la play factory, l’inserimento del gioco nel lavoro, rientra nel nostro progetto di portare avanti un’azienda, non una fabbrica. Non abbiamo mai impiegato una persona per affidarle un compito ripetitivo. Qui il lavoro è pensato per l’individuo, non il contrario. Quando i clienti vengono a visitare questo “parco giochi tecnologico” si meravigliano soprattutto per la qualità del clima che si respira all’interno dell’impresa stessa. Cerchiamo di rendere il lavoro stimolante senza trasformarlo in fatica: la fatica è sacrificio, ma nei nostri bilanci non c’è quest’ultima voce.»
Ha fatto nascere questa impresa in un momento economico favorevole: non crede che oggi sia più difficile, per un giovane, sperare di raggiungere obiettivi come quelli che ha raggiunto Lei in un periodo di crescita?
«Non è vero che c’è sempre un momento giusto per mettere su un’impresa: c’è il momento. Bisogna saperlo cogliere, saper “prendere il treno”, che è in realtà una circolare, passa continuamente. Per me vale il detto: Aiutati che il cielo ti aiuta. Bisogna darsi da fare, il resto viene da sé. Ricordo che ogni cosa chiedessi a mio padre, la sua risposta era: “Arrangiati”, e io ne ho fatto tesoro. Grazie a questo stimolo, mi sono arrangiato. Direi che molto dipende da noi: spesso tendiamo a scaricare la responsabilità dei nostri fallimenti sugli altri, dovremmo invece provare a fare il contrario.»
Di certo, avrà affrontato molte sfide. Si sente cambiato? Chi era ieri e chi è oggi Enrico Loccioni?
«Nessuno ama il cambiamento. Nel mio e nel nostro caso, abbiamo imparato un altro approccio, che è quello del miglioramento continuo. Io ne faccio un po’ ogni giorno, ma devo sapere verso quale direzione sto andando.»
E in che direzione sta andando?
«Quella di trovare clienti che reinventino l’impresa e persone qualificate per lavorare, soprattutto giovani che abbiano voglia di mettersi in gioco, accompagnandoci nel nostro percorso di crescita verso il futuro.»