L’ayatollah Khomeyni per molti è santità, abbocchi sempre all’amo: così cantava Franco Battiato ne La voce del padrone nel lontano 1981. A quell’amo, però, sicuramente non abboccherà mai più la ragazza che il 27 dicembre scorso, in Iran, ha deciso di protestare contro il regime teocratico togliendosi il proprio hijab, sventolandolo a mo’ di bandiera nel cielo di Teheran.
Dall’11 gennaio hanno cominciato a riprendere spazio, sulle pagine dei maggiori quotidiani del nostro Bel Paese, le nuove ondate di proteste in Nord Africa. La Tunisia, infatti, è tornata a sollevarsi contro l’approvazione della nuova legge finanziaria, qualcosa di molto simile a quella che qui da noi viene definita legge di stabilità (dei prezzi, con conseguente inevitabile massacro dei salari). In Algeria, invece, ha ripreso vigore la protesta berbera contro il mancato riconoscimento ufficiale, in funzione totalitaria, della lingua e, dunque, della relativa presenza culturale nell’ambito dell’assetto economico del Paese. Al tempo stesso, il Marocco non se la passa meglio con le proteste nel Rif e il licenziamento dei ministri, animato da spirito populista, da parte di Re Mohammed VI, per la mancata realizzazione dei piani di sviluppo regionali di al-Hoseyma, accompagnata dal continuo avanzamento del fronte terroristico legato al dilagare del narco-jihadismo.
Insomma, come a voler sottolineare che se non si è in grado di consentire alle proprie donne di “svelare” la loro vera natura, se non si è capaci di concedere alle persone libertà d’azione aprendosi al libero scambio azzerando lo Stato, se non si è all’altezza di riconoscere le minoranze etnico-linguistiche che contribuiscono a nutrire l’identità di un popolo nel suo complesso – classica forma di balcanizzazione interna già in passato fomentata ad arte anche in altre ex-colonie francesi in terra d’Africa, nonché in quelle anglo-franco-prussiane in terra d’Europa, come la Catalogna o l’intera Italia attraverso le forme di prevaricazione del Nord “formica” a danno del Sud “cicala” –, è normale che le popolazioni si ribellino ad atteggiamenti ostili al riconoscimento del loro diritto fondamentale ad autodeterminarsi, fino a esprimere il desiderio “spontaneo” di provare a liberarsi dai propri governi legittimamente eletti a maggioranza come pratica democratica vuole.
Ancor prima di questo nuovo deflagrare di “primavere” arabe in pieno inverno boreale, però, aveva già fatto la sua comparsa, sullo scacchiere del main-stream militante e alfiere del pensiero unico anglo-riferito, il Labodif, acronimo che sta per Laboratorio delle differenze il quale aveva deciso, sul finire del 2017, poco prima dell’inizio dei mondiali di scacchi tenutisi in Arabia Saudita tra il 26 e il 30 dicembre, di diffondere via social, urbi et orbi, una notizia di cui potrebbe essere opportuno tornare a discutere, ovvero la rinuncia – con la conseguente perdita dei titoli precedentemente conquistati – alla competizione internazionale da parte della giovane scacchista ucraina Anna Muzychuck, nonché quella di sua sorella Maria che l’ha seguita a ruota, così come a ruota si sono immediatamente e febbrilmente susseguiti numerosi post a sostegno.
Io sto con lei, apprezzo la reciprocità e il rispetto per chi rispetta, reputo questa la civiltà, il resto è chinare la testa e annullarsi; Grande, secondo me non hai perso nessun titolo; Trovo che tu stia facendo un gesto epico e importante al contrario e nel rispetto del Paese arabo, giusto e coraggioso quindi il tuo gesto calcolando l’importanza per te giocatrice della posta in palio. Sono solo alcune delle frasi di approvazione giunte alla campionessa. Tutto condivisibile, certo, ma la vera civiltà non è quella che comporta l’accettazione dell’altro anche quando l’altro non ci piace?
Va da sé che in linea di principio la scelta della scacchista, al pari della ragazza iraniana senza velo o veli, è stata ed è ovviamente sacrosanta. Lo è, però, nella misura in cui è sacrosanto anche il diritto a non dover subire da parte di nessuno alcuna discriminazione in nome di una diversità di qualunque genere, presunta o reale che sia. Se le donne saudite per scelta o per obbligo portano il velo, cosa c’entra tutto questo con le regole di un torneo di scacchi? Il punto è che quella sollevata dalla giovane è una questione politica mossa da logiche e leve che innalzano il pensiero unico a legge uguale per tutti.
La frase pronunciata da parte della Muzychuck su cui infatti varrebbe la pena soffermarsi a riflettere è: Tra pochi giorni perderò i miei due titoli mondiali, uno a uno. Solo perché ho deciso […] di non giocare con le regole di altri. Una frase difficile da accettare poiché tutti siamo uguali di fronte alla legge e la legge è uguale per tutti, a patto però che essa sia l’espressione del popolo a cui si appartiene e a patto che non appiattisca ogni differenza sul piano dell’omogenizzazione mercantilistica, che agli stili di pensiero intellettualmente dedotti preferisce gli stili di vita pubblicitariamente indotti.
Personalmente, mai mi sognerei di affermare che in nome della mia stessa legge un altro popolo con usi, costumi e tradizioni, per quanto discutibili, ma in ogni caso differenti dai miei, debba essere uguale a me fino all’estrema conseguenza di non accettarne le “regole”, quindi l’esistenza. Diversamente, non potrei che scadere in una forma di deliberata auto-istigazione all’omologazione di massa da pensiero unico, appunto, che siamo tutti disposti ad accettare a patto che sia il nostro, al pari delle regole di un gioco che vanno sempre bene, purché non siano altri a scriverle.
Le parole, a volte, nascondono molti più significati di quanto un velo possa fare con il viso di una donna. Le parole fanno e disfano il mondo, come quelle che portarono alcuni sedicenti paladini della giustizia altrui a sostenere, nel 2001, la presenza di inesistenti armi chimiche in un Paese chiamato Iraq che tutt’oggi detiene la più grande riserva petrolifera mondiale. Sarà stato un caso che l’abbiano poi attaccato? Dopo tutto, che responsabilità abbiamo noi se altri posseggono ciò di cui necessitiamo?
Quella volta, però, fu tutta colpa di Osama Bin Laden. Così ci dissero. Così come oggi ci dicono che le colpe della miseria in cui ci troviamo sono da ricercare nell’eccessivo numero di migranti in casa nostra che non accettano le nostre regole, dimenticandoci che se non sono a casa loro è perché i primi a far loro visita siamo stati noi, già due o tre secoli fa. Chissà cosa avranno pensato delle nostre regole!
In conclusione, quando riusciremo a stabilire condizioni comuni e condivise, intese come valide per quell’unico grande popolo mondiale a cui vorrebbero linguisticamente e culturalmente ridurci, allora sì che potremo anche permetterci di rifiutare l’invito a giocare assieme agli altri. Finché saranno le differenze a prevalere sull’omologazione, per quanto pervasiva e virulenta essa sia, infatti, non potremo che continuare ad accettare di essere tutti uguali ognuno al cospetto della propria legge, senza che nessuna prevalga sull’altra, a meno che non si decida di giocare ad armi pari e di provare a vincere per poi stringersi la mano e lasciare in santa pace chi ha perso, così come richiederebbe qualunque, sana competizione sportiva che rispetti e si faccia rispettare.
Potranno anche provare a metterci sotto scacco, ma non facciamoci prendere per matti ogni volta che una pedina tenta di passare per regina, sia essa iraniana, tunisina, algerina o ucraina. Una rondine sola non fa mai primavera.