Alferio Spagnuolo, giallista partenopeo, si è ispirato a Alfred Hitchcock e all’omonima collana, edita in gran parte da Arnoldo Mondadori Editore ma iniziata da Feltrinelli, versione italiana di una serie di antologie di racconti mystery apparsa dopo il successo della serie televisiva. Il regista appariva come nome di richiamo ma non prendeva parte personalmente alla scelta delle storie, lasciando il compito a fidati collaboratori come Robert Arthur.
In Tra il nero e il rosa, racconti per una notte (Aletti editore), l’autore napoletano raccoglie tre storie brevi, quasi delle flash novel da leggere quando vi trovate soli in casa e… se c’è qualcuno sbarazzatevene – direbbe con la proverbiale ironia il maestro del brivido – Ora spegnete quante più luci potete, scegliete un racconto e portatevelo a letto. Se volete assaggiarne un altro, fate pure, ma siate prudenti. Una dose eccessiva potrebbe esservi fatale.
Narrazioni che paiono capitoli di un unico romanzo. Tre diversi punti di vista legati da un sottile filo di congiunzione che, attraversando la narrazione, si sfumano. Tre elementi in comune che si mescolano, colorano differentemente le atmosfere e non è mai una tonalità netta.
Balza subito all’occhio la ricorrenza di un mondo, quello delle forze dell’ordine. I suoi rappresentanti con atti di eroismo o abusando della propria autorità modificano la realtà e compiono sempre un atto trasgressivo. Nel primo racconto, un poliziotto in borghese che sventa una rapina; nel secondo, il commissario Apicella e, nel terzo, un altro funzionario di polizia di cui conosciamo solo il nome, Veronica.
Tra il rosa del racconto sentimentale e il nero del noir, Alferio Spagnuolo crea un’inedita zona d’ombra che un po’ ci riporta alla “zona grigia” di Primo Levi. A differenza del grande scrittore torinese, però, non fa riferimento a quella dialettica di potere che esiste tra un vertice che comanda e un una base che ubbidisce come in un lager o in tanti luoghi di lavoro, dalle caserme agli uffici, dagli ospedali alle fabbriche. Piuttosto, rimanda a una realtà psicologica quotidiana che possiede una sua struttura interna incredibilmente complicata e alberga in noi quanto basta per confondere la nostra capacità di giudicare, di valutare, di comportarsi. Difficile stabilire il concorso di responsabilità dei singoli personaggi nella scelta delle proprie azioni.
I protagonisti non sono gli eroi di un giallo o di un mystery, hanno una consistenza ordinaria. I fatti, sebbene narrati con lo stile del trhiller, non sono straordinari ma quasi domestici. Spagnuolo riesce a creare un legame di enorme complicità con il lettore che non legge semplicemente una storia immaginata ma finisce con l’interrogarsi su se stesso, sulle proprie convinzioni, sulle reazioni più probabili a vicende estremamente realistiche.
Originalità dell’ispirazione ma, soprattutto, volontà di indagare il fondo della personalità umana, là dove l’acqua si mischia al fango, zampilla e a volte si sporca di detriti. Il più delle volte riusciamo a tenerli sul fondo ma quando l’ordine razionale vacilla, tornano a galla e contaminano la purezza dei nostri sentimenti. L’amore diventa possesso, la ricerca della verità può trasformarsi in convenienza personale, il senso di giustizia in vendetta.
Tutti sono accomunati da uno stato di coscienza alterata: il coma, la perdita violenta, la soddisfazione di un bisogno profondo di cambiamento della propria realtà. In ogni situazione in cui i processi che costituiscono la coscienza – come la memoria, la percezione, l’attenzione, le emozioni – non lavorano più in modo ottimale, si entra in ciò che viene definito stato alterato dell’ordinario stato di coscienza. I personaggi non sono più consapevoli dell’ambiente circostante o hanno un controllo parziale o nullo dei propri sensi al punto tale da percepire in modo distorto le loro sensazioni e tutto ciò che vedono o accade.
Il nostro stato di coscienza ordinario è uno strumento che ci permette di muoverci nel nostro ambiente, di decodificare la realtà sociale nonché le esperienze e i valori che ne sono alla base. Le informazioni che dal mondo esterno vengono captate attraverso i sensi ed elaborate dal cervello, quindi, possono essere immagazzinate in altro modo assumendo nuovi significati e valori. Sogno, situazioni transitorie tra sonno e veglia, stati ipnotici oppure patologie psichiche, ebbrezza alcolica, estasi, trance e meditazione, assunzione di droghe allucinogene: gli stati alterati di coscienza non sono per forza indotti o creati artificialmente, fanno parte della nostra vita quotidiana e ognuno di noi può sperimentarli. Producono quasi una coscienza allo stato primitivo, liberata cioè da condizionamenti sociali imposti.
Anche il senso della morte risulta percepito diversamente. Nel primo brevissimo racconto, tanto da sembrare incompiuto, il personaggio è in coma, un lungo sogno o un’esperienza di pre-morte.
Sonno e morte, da millenni, sono stati affiancati l’uno all’altra e legati da nessi eufemistici (addormentarsi-morire), mitologici (per i Greci Hypnos, il dio del sonno, era fratello gemello di Tanatos, dio della morte) o metaforici (la morte come un sonno eterno senza sogni). Il sonno, realtà esperibile, reversibile, si è prestato come base per pensare la morte, di per sé non esperibile e irreversibile. Tuttavia, anche lo stato di coscienza onirico, il sogno, è servito come mezzo cognitivo-esperienziale per poter pensare la morte. Inoltre, vi è una condizione descritta – non solo da chi l’ha vissuta personalmente – coincidente con la stessa morte, che in tal modo è stata illusoriamente piegata alla dimensione esperienziale. Non è un caso che essa sia stata denominata esperienza di pre-morte. Si entra in una dimensione altra, per alcuni consolante, per altri angosciante, che il protagonista del racconto di Spagnuolo percepisce simile a un sogno dolce, luminoso come una bella donna.
Lo stato di alterazione della coscienza vissuto dal commissario Apicella è causato da un trauma profondo e doloroso, quello della perdita dell’amata moglie, a cui si aggiunge l’uso di sostanze stupefacenti. Prevale una coscienza più che primitiva, diremmo selvaggia, che lo induce prima alla vendetta e poi al suicidio. Il senso della morte diventa negazione assoluta della razionalità, dei suoi valori, della vita stessa.
Per Sergio Martini, interprete dell’ultima storia di Alferio Spagnuolo, la morte è vissuta da spettatore, dall’esterno. L’emotività iniziale e il senso della giustizia vengono annientati da una razionalità utilitaristica estrema, un individualismo che al primo posto mette l’interesse personale.
In una società come quella contemporanea dove tutti sono pronti a discettare di tutto, ma nessuno parla del “fatto”, cioè della dipartita, di questa usanza, come diceva ironicamente Borges, che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare, il senso della morte è un attore muto che si muove sul palcoscenico della vita. Se ne evita il pensiero o si banalizza attraverso la spettacolarizzazione. Perché guardarlo in faccia impone di interrogarsi sul significato dell’esistenza e sul destino, mentre tutto il nostro mondo è costruito sulla mancanza e sulla distrazione.
Più che dare risposte, il libro di Spagnuolo crea domande ed è questa la strada giusta della scrittura.