Quando c’era lui i treni partivano in orario, quando c’era lui ci deportavano in orario. – Caparezza
Non c’è, in realtà, un orario giusto per vedere la propria vita stringersi, in un container, a quelle di decine, centinaia, migliaia di altre. Non c’è un orario preciso quando la speranza si lega ai binari che corrono via sotto il convoglio e allontanano casa dallo sguardo. Non c’è un orario quando il domani si trasforma in una preghiera. E non c’è meta, ognuna ha lo stesso grigiore, non c’è treno che sfidi il tempo, non c’è banchina da cui salutare promettendosi un nuovo abbraccio.
Milano, circa ottant’anni fa, non era la capitale d’Europa che oggi tutti conoscono per le sfilate della Fashion Week o per il suo essere cosmopolita e all’avanguardia. I suoi hub ferroviari, però, la collegavano comunque con il resto del vecchio continente, in particolar modo, un binario, il 21, faceva da spola continua per la Polonia, precisamente per il campo di lavoro di Auschwitz.
Indifferenza. Si legge quest’unica, fortissima, parola all’ingresso del Memoriale della Shoah di Milano. Nell’indifferenza dei milanesi, degli italiani fascisti del tempo, si compiva, ogni giorno, il rito tragico delle deportazioni. Camion zeppi di dissidenti del regime, lavoratori antifascisti, partigiani ed ebrei residenti nel nostro Paese raggiungevano la Stazione Centrale in uno spazio al di sotto dello scalo meneghino, nascosto alla luce e all’aria, poi, soltanto lì, guardie armate di bastoni, rabbia e violenza spingevano donne, uomini e bambini, nelle carrozze buie che li avrebbero contenuti per un’intera settimana, uno contro l’altro, senza spazio, spesso, per muoversi o per fare i propri bisogni, per tutta la durata del viaggio verso la morte.
Una rampa d’elevazione, solo una volta affollati tutti i convogli, portava al piano superiore il treno e la marcia poteva avere inizio. Milano, l’Italia, il mondo intero restava a guardare nel silenzio.
Oggi, il Binario 21 è ancora lì dove sorgeva sinistro negli anni Trenta e Quaranta, ogni dettaglio è rimasto lo stesso dell’epoca. Tutto il resto, locomotive comprese, demolendo gli elementi aggiunti nel dopoguerra, è stato ricostruito fedelmente, così da donare al sito le forme di un museo ma anche, e soprattutto, di un luogo di riflessione e memoria collettiva, uno spazio dove rigenerare, invece, consapevolezza individuale, uno specchio per le generazioni future dove guardarsi e riconoscersi ancora colpevoli.
Il percorso lungo la stazione nascosta della vergogna ha inizio con la Sala delle testimonianze, riempita dalle voci dei solo ventidue sopravvissuti, dalle loro testimonianze, quindi prosegue con lo spazio di manovra dei vagoni, intitolato Binario della Destinazione ignota, e si conclude con la passeggiata lungo il Muro dei Nomi, emblema dell’angoscia vissuta dalle centinaia di anime che quelle rotaie non le hanno mai percorse in direzione contraria. Una carrellata, su di un led luminoso, su cui rimbalzano di continuo nomi e cognomi di tutti gli ebrei deportati, tra cui campeggia anche quello della neo-senatrice Liliana Segre, partita dal Binario 21 di Milano a soli tredici anni in compagnia del suo papà.
L’esperienza nel Memoriale termina nel luogo della riflessione, un cono capovolto, rivestito con assi di legno e dalla luce scarsa, completamente vuoto all’interno, una piccola area dove una quiete quasi sovrannaturale culla i visitatori tra i loro pensieri certamente scossi dalla forza delle immagini raccolte.
Tra dicembre 1943 e gennaio 1945 partirono dal cosiddetto Binario 21 della Stazione di Milano Centrale circa ventitré convogli. Mai uno solo lo si è visto tornare.
Il ricordo è protezione dalle suggestioni ideologiche, dalle ondate di odio e sospetti. La memoria è il vaccino culturale che ci rende immuni dai batteri dell’antisemitismo e del razzismo. – Ferruccio De Bortoli, Presidente della Fondazione Memoriale della Shoah