In questa Napoli, famelica e crapulona, fanfaronesca e remissiva, superstiziosa e credula, astuta e ingenua, ricca e pezzente, chiassosa e canora, di già per sé stessa smisurato palcoscenico con fantasiosi scenari naturali, dove agiva il più eterogeneo e mastodontico complesso di commedianti, fu inaugurato verso il 1890, ad opera di intraprendenti impresari, i fratelli Marino, uno dei primi café-chantant […] che denominarono (in omaggio alla regina, campione di bellezza femminile): Salone Margherita. Scrisse Rodolfo De Angelis nel suo Storia del Cafè Chantant.
Antonio Emanuele Piedimonte nel suo Napoli, racconta che un anno dopo l’apertura del Moulin Rouge a Parigi, il 15 novembre 1890, fu inaugurato il Salone Margherita, teatro nato da un’idea dei fratelli Marino e progettato dall’architetto Curri. Tra le proteste di mogli gelose, zitelle scandalizzate e vecchi moralisti, la Napoli che contava si ritrovò, quindi, nella crociera inferiore della Galleria Umberto I, percorrendo i suggestivi corridoi sotterranei per scoprire questo incredibile luogo.
Matilde Serao, descrisse così il grande evento: Lo spettacolo principiò con una canzonetta assai ben curata, dell’ungherese signorina Rosa Dorner, che ha una vocina molto simpatica, e ha l’aria di una divetta piena di sentimento. Ella ne sparse abbondantemente i refrains della sua dolce patria e dovesse ripeterli tra la generale soddisfazione, (…) fra il pubblico le principesse di Pignatelli, Gerace e Pescara, le contesse de La Feld, la signora Massimo e l’onorevole Bonghi in gentile compagnia.
Il Salone Margherita fu progettato sul modello dei locali notturni parigini di fine Ottocento. Aveva una pianta circolare, coperta da una cupola a ombrello che poggiava su sedici pilastri che terminavano con semicolonne dal capitello ionico, due ordini di palchi e la platea con tavolini di marmo in grado di ospitare ottocento spettatori. Si trattava di una vera e propria copia del modello d’oltralpe, come scrive il Piedimonte, con i cartelloni scritti in francese, così come i menù e i contratti degli artisti. Le chanteuses erano le cantanti-ballerine e i loro nomi d’arte furono presi in prestito dalla lingua gallica. C’erano anche gli chef-d’orchestre, la buvette e i camerieri in livrea che parlavano francese.
Il pubblico che assisteva agli spettacoli era davvero vario, composto da signore “ingioiellate”, ricchi rampolli ereditieri e professori universitari, ma non mancavano, ovviamente, anche i più assidui frequentatori dei caffè cittadini: i giornalisti e gli intellettuali più in vista. Tra questi, ricordiamo Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco, Edoardo Scarfoglio e Ferdinando Russo. L’ospite più illustre fu però Vittorio Emanuele, principe di Napoli, allora ventunenne, particolarmente sensibile al fascino delle soubrette.
Furono tanti i grandi nomi che passarono, nel corso degli anni, scrive il Piedimonte, al Salone Margherita, nomi della Belle Èpoque quali Carolina Otèro, conosciuta come la bella Otero, la fulgida stella dell’operetta Pina Ciotti, l’andalusa Consuelo Tortajada, la partenopea Amelia Faraone, Cléo de Mérode, Eugénie Fougère, Margaretha Gertrude Zolle e Maria Campi.
Il salone, però, non prevedeva soltanto lo spettacolo delle bellissime vedettes, ma anche comici “satirico-sociali”, di cui Nicola Maldacea, che fu il caposcuola della macchietta. I macchiettisti non facevano altro che prendere di mira, con caricature divertenti, qualsiasi personaggio capitasse loro a tiro, nobili o camorristi non era importante, e creavano accompagnamenti con ritornelli semplici e musiche bizzarre. Gli autori delle macchiette erano persone altrettanto celebri: Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco, Trilussa, Ferdinando Russo e Raffaele Viviani.
Anche nei primi anni del secondo dopoguerra la fama del Margherita non cessò ma, anzi, il teatro continuò a essere un vero e proprio tempo del varietà e un punto di arrivo importante per ballerine e cantanti emergenti. Infatti, furono molti i grandi artisti, ma anche i giovani talenti del mondo del teatro, della canzone e del cinema, che solcarono il palco partenopeo. Nel dopoguerra, però, per l’entusiasmante luogo di ritrovo fu un periodo difficile, scrive il Piedimonte, e il 14 gennaio del 1952 ci fu la prima chiusura, seguita da quella nel dicembre del 1960 e poi negli anni Ottanta. Tuttavia, grazie all’intervento della famiglia Barbaro, una parte dello storico locale fu restaurata e poi recuperata, cercando di mantenere una sorta di continuità culturale con il passato. Il nuovo caffè-ristorante Salone Margherita ospita infatti spettacoli musicali e di varietà, una vera e propria garanzia per l’intrattenimento.