Come vivono i bambini nella società occidentale contemporanea, caratterizzata dal benessere materiale e dal malessere esistenziale? Il film Loveless del regista Andrey Zvyagintsev, che ha ricevuto il Grand Prix della Giuria al Festival di Cannes 2017, ci pone questa e altre domande, partendo da una storia di ordinaria crisi familiare nella Russia dei nostri anni.
Il dodicenne Alëša assiste al disfacimento della sua famiglia. Zhenya e Boris, i suoi genitori, sono presi dai problemi legati al loro divorzio e soprattutto dalla contesa sui beni familiari, e la muta, scontrosa sofferenza del figlio è sentita come un peso, un problema in più da scaricare sull’altro.
Marito e moglie sono i protagonisti di un’unione senza amore, che anni prima è nata proprio per l’inaspettato arrivo del bambino. Ora si detestano e desiderano vivere con altri compagni: Boris sta con una giovane donna, che tra non molto gli darà un figlio, e Zhenya ha per amante un uomo benestante e solo, che ogni tanto comunica attraverso la rete telematica globale con una figlia già grande e indipendente che vive e lavora in un Paese del Sudamerica.
Dopo l’ennesima lite furiosa sulla casa da vendere e sul ragazzino da affidare – ma sarebbe più leale dire “abbandonare” all’altro genitore – il piccolo Alëša scompare e lo scenario cambia. La madre chiama la polizia, ma il poliziotto a cui racconta il proprio dramma dapprima le risponde in maniera superficiale, poi le confida che farebbe meglio ad affidarsi a un’organizzazione di volontari che si occupa della scomparsa dei minori, dal momento che gli organici della polizia non riescono a stare dietro ai troppi casi simili e la burocrazia le farebbe perdere tempo prezioso.
La “denuncia” morale ed estetica nella prova cinematografica di Zvyagintsev è tesa, rigorosa nella costruzione narrativa, ma il vuoto esistenziale che descrive e la sua “freddezza” affettiva spesso sembrano prevalere e frenare l’adesione emotiva dello spettatore, tranne che in diversi momenti drammatici nella seconda parte del racconto, quando l’ansia assale tutti, personaggi e pubblico, per la sorte di un bambino che da protagonista minore nell’inizio filmico con la sua scomparsa diventa l’invisibile protagonista.
Dov’è Alëša? Quale sarà la fine dei nostri bambini in una società votata all’individualismo, dove tutti credono di potersi salvare da soli, rifiutando ogni legame e quindi ogni responsabilità nella cura degli altri e, in particolar modo, dei più deboli?
L’Occidente del sistema-mondo in cui viviamo, insomma, all’alba del Terzo Millennio, deve rivedere la basi economiche, sociali e culturali su cui pensa di aver edificato l’inarrestabile progresso e la propria forza. Quando questi ultimi vengono misurati soltanto sulla produzione, sul possesso e sul consumo dei beni materiali, nell’indifferenza per le ricadute su quello che rimane delle “reti affettive” tradizionali, la crisi è inevitabile e può portare a un punto di non ritorno.
È proprio il modo in cui gli adulti si prendono o meno cura dei minori, in effetti, a costituire un indicatore fondamentale della “qualità” della vita e della possibile continuità nello spazio e nel tempo di ogni formazione societaria.