La carta all’albumina – considerata come l’evoluzione di quella salata – fu inventata nella seconda metà dell’Ottocento per dare maggiore affidabilità alla qualità e alla stabilità dell’immagine nel tempo. Il fotografo francese Louis Désiré Blanquart Evrard ne diede annuncio ufficiale nel 1850. La sua preparazione consisteva nel far galleggiare il foglio in una soluzione di cloruro di sodio e bianco dell’uovo sbattuto per poi, subito dopo, sensibilizzarlo con nitrato d’argento. Era, così, pronto per essere esposto.
Dopo suddetta lavorazione, la carta poteva essere conservata per pochi giorni, ma senza far trascorrere troppo tempo a causa del processo di degrado che portava alla perdita della sensibilità dei composti d’argento. I diversi strati di albume presenti conferivano una certa brillantezza, restituendo un’immagine fotografica con maggiore o minore contrasto e quindi, di conseguenza, con maggiore o minore ricchezza di dettagli. Lo strato di albume aveva inoltre la funzione di nascondere le fibre della carta così da rendere la superficie più uniforme e compatta.
Questo procedimento fu però penalizzato dall’azione della luce sull’albume che, combinata con agenti atmosferici quali l’umidità, causava un forte ingiallimento, alterando così i toni dell’immagine soprattutto nelle zone chiare. Così come la carta salata, anche la carta all’albumina era ad annerimento diretto e veniva quindi sottoposta a viraggio per modificare la colorazione e i toni dell’immagine.
La carta all’albumina era prodotta industrialmente in risme di largo formato e i singoli fogli venivano tagliati secondo le esigenze:
Mignonette – 60×35 mm;
Pochet – 75×37 mm;
Carte de visite – 104×62 mm dal 1854;
Touriste – 108×67 mm dal 1854 al 1860 ca.;
Victoria o Margherita – 126×80 mm dal 1870 ca.;
Album – 165×110 mm;
Gabinetto americano – 177×86 mm;
Salon o Cabinet – 270×175 mm dal 1860 ca.;
Boudoir – 220×133 mm dal 1870 ca. al 1900 ca.;
Family – 290×230 mm.
La preparazione della carta fotografica fu, in seguito, realizzata per la prima volta anche in laboratori specializzati e non soltanto nella camera oscura del fotografo. Un tale passo in avanti permise un approccio alla fotografia più semplice, incrementandone la professione e incentivando la schiera di fotografi dilettanti che trovavano in commercio, senza difficoltà, i materiali fotosensibili di cui necessitavano. Questo fu uno dei tanti motivi che resero la fotografia un fenomeno sociale oltre che artistico.
André Adolphe-Eugene Disdéri, fotografo francese, nel 1854, creò un apparecchio fotografico munito di diversi obiettivi grazie ai quali si ottenevano, in un unico negativo, dalle quattro alle otto esposizioni in un formato di circa 6×8,5 cm. In questo modo erano possibili, con una sola seduta presso lo studio del fotografo, diverse pose che il cliente poteva in seguito scegliere e acquistare a un prezzo modesto. Le stampe erano eseguite ponendo a contatto il negativo con la carta all’albumina, per poi successivamente incollarle su cartoncini sui quali era stampato il marchio di fabbrica. Queste immagini erano denominate cartes de visite, in quanto avevano le stesse dimensioni di un biglietto da visita, ed ebbero un notevole successo commerciale.
Per risolvere il problema dell’ingiallimento, furono prodotte dall’industria delle carte albuminate colorate (rosa, malva, azzurre, verdi, a seconda dei generi, quindi ritratto, paesaggio, ecc.). Nel 1880 circa, inoltre, queste furono sottoposte a un trattamento di calandratura per rendere la superficie più lucida. Tale brillantezza faceva risaltare maggiormente i dettagli, soprattutto nelle zone scure. Le carte furono utilizzate fino al 1885 circa.