C’era una volta la famiglia. E c’era una volta, ma in effetti c’è ancora, il cinema del “pessimismo” esistenziale – per alcuni “realismo” senza concessioni allo spettacolo – di Michael Haneke. Nel suo Happy end, la drammaturgia dura, persino spietata, del regista austriaco sembra assumere, ma solo a tratti, i toni da commedia, per una critica sociale e radicale del nucleo familiare e del macrocosmo societario in cui si specchia e a cui rimanda.
Il film ci racconta della famiglia Laurent, dove i protagonisti vivono più che altro legati dalla loro società edile, ormai in crisi e capitanata dal vecchio Georges, interpretato da uno straordinario Jean-Louis Trintignant. In realtà, l’azienda è guidata dalla figlia Anne (Isabelle Huppert), che tenta di coinvolgere, senza successo, il tormentato figlio Pierre nella conduzione dell’impresa. Vivono tutti nella zona della città di Calais, affollato crocevia dell’immigrazione nel nord francese ed europeo, un fenomeno dal quale, comunque, i Laurent si tengono lontani, completamente presi dalle crisi esistenziali e finanziarie, del tutto indifferenti a ciò che succede là fuori nel mondo.
Spettatrice quasi estranea della messinscena alto-borghese è la piccola Eve. La tredicenne e triste ragazzina è figlia di Thomas – altro esponente del gruppo familiare –, un medico tanto preso dalla sua professione quanto superficiale nel gestire le relazioni personali. La madre di Eve, prima moglie di Thomas, è in ospedale per un eccessivo abuso di farmaci. Quando morirà, la bambina verrà ospitata dalla famiglia del padre. L’indaffarato professionista, interpretato da Mathieu Kassovitz, è attualmente sposato con la giovane Anais, dalla quale ha avuto un bambino, ma trova anche il tempo, di nascosto, di occuparsi della sua amante musicista. Il vecchio e sempre più malato Georges, intanto, a causa delle sofferenze fisiche e psicologiche ma anche disgustato dall’ambiente nel quale vive, desidera mettere fine ai propri giorni, ma nella tristezza e nel malessere di Eve, gli sembra di trovare un’inaspettata traccia di umanità perduta, e forse la sua interlocutrice, almeno così spera, lo aiuterà a sopravvivere o a morire.
Alcuni commentatori, hanno visto in questa opera di Haneke, diversa dalle precedenti, come Il nastro bianco e soprattutto Amour – entrambi premiati a Cannes con la Palma d’Oro in anni recenti –, anche una riflessione critica sulla possibilità di una rappresentazione cinematografica della vita contemporanea.
Un proverbio africano recita: Per far crescere un bambino, ci vuole un intero villaggio. La famiglia degli inizi del Terzo Millennio, invece, sembra sospesa tra l’inarrestabile processo di individualizzazione e la speculare vulnerabilità esistenziale e sociale, fenomeni tipici della più avanzata modernità. Nell’incipit e nella scena finale del film, la piccola Eve riprende con il cellulare i gesti e la sofferenza delle due persone, ora al termine della loro esistenza, con cui ha cercato invano di stabilire quella “familiarità” che forse le sarà negata per sempre.
Persino il cinema, sembra dire Haneke nel suo Happy end, non riesce più a rappresentare, anche in negativo, una commedia umana caratterizzata dalla vita liquida, per usare la definizione che ci ha dato il sociologo Zygmunt Bauman. Gli attori individuali e sociali ormai si relazionano tra di loro soltanto per mantenere disperatamente vivo il proprio egoismo, incapaci di avere rapporti affettivi e ancora meno di realizzare un comune progetto di vita.