Sono finalmente arrivato in Svizzera e ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato. Volevo ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore, di dolore, di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e lo ringrazierò fino alla morte. Grazie Marco. Grazie mille.
Furono queste, lo scorso 27 febbraio, le ultime parole scritte da Fabiano Antoniano, in arte Dj Fabo, il giovane costretto a emigrare in un Paese non suo, la Svizzera, per mettere fine alla propria vita, dopo lunghi ed estenuanti anni di agonia, alle 11:40 di un giorno che suscitò polemiche e indignazione nella sua terra natia. L’Italia, infatti, non gli aveva riconosciuto il diritto alla morte e avrebbe perseguito penalmente, di lì a poco, Marco Cappato, radicale e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, accompagnatore di Fabo.
Da allora, sono trascorsi nove mesi, gli stessi che la natura ha stabilito come sufficienti agli esseri umani per generare nuova vita, ma che la politica – ovviamente nostrana – ha ritenuto non abbastanza per provvedere ad adeguare la legge ai bisogni degli uomini. Da anni, in Italia, si finge di discutere del fine vita attraverso paroloni quali, ad esempio, testamento biologico, suicidio assistito ed eutanasia (attiva o passiva), più difficili alla pronuncia che alla loro reale collocazione nell’intersezione dei due grandi insiemi di riferimento, quelli dei diritti e delle libertà. Mai, però, si è giunti a una reale soluzione, tantomeno tutela, di chi, in moltissimi casi estremi, ha deciso e decide tutt’oggi di abbandonare lo Stivale per smettere di soffrire inutilmente.
Come documentato nel dicembre del 2016, circa i due terzi dei cinquanta casi registrati in Canton Ticino in quello stesso anno provenivano dal Bel Paese che, come per vivere, tanto bello continua a non confermarsi nemmeno in fase di morte. A dimostrarlo, anche le dichiarazioni di Emilio Coveri, Presidente di Exit Italia, una delle principali associazioni a difesa del diritto a una morte dignitosa: Novanta al mese sono i cittadini italiani che chiamano per chiedere di avere informazioni su come ottenere il suicidio assistito in Svizzera. È capitato anche di ricevere due richieste per pazienti minorenni, da parte di genitori disperati. Naturalmente, per loro non abbiamo potuto fare nulla.
Il flusso migratorio, quindi, si conferma di anno in anno sempre più costante e consistente. Tuttavia, nonostante ciò e nonostante l’opinione pubblica, ormai in gran parte matura e pronta a un rinnovamento sostanziale della materia inerente al fine vita, la legislazione insiste nella sua sordità, ignorando anche la Costituzione che – come in ogni suo punto – si esprime in modo chiaro. L’articolo 32, infatti, così enuncia: Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Il ddl sul biotestamento, invece, è fermo in Senato e, molto probabilmente, da lì non uscirà vittorioso.
A intervenire sull’argomento, negli ultimi giorni, ci ha pensato anche Papa Francesco in occasione del convegno dedicato al testamento biologico tenuto dalla Pontificia Accademia per la Vita: È moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito proporzionalità delle cure. Una dichiarazione importante, la sua, che finalmente – e, si spera, una volta per tutte – fa cadere il velo di Maya dietro al quale un’ala del Parlamento e una porzione della cittadinanza italiana si sono spesso celate a difesa delle loro convinzioni bigotte e liberticide le quali non riconoscono, non accettano e limitano la naturale condizione umana, mortale e precaria. Come ha affermato Bergoglio, bisogna prendere atto di non poterla più contrastare, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere. Il Capo della Chiesa, infatti, è stato attento a sottolineare la sua avversità all’eutanasia che, invece, ritiene illecita in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte.
Parole, quelle del Papa, che hanno generato un’eco notevole, soprattutto tra le pareti di Palazzo Madama e Montecitorio, dove in particolare le destre confermano il loro no deciso a un adeguamento della carta legislativa che, invece, in molti Paesi d’Europa, non si è fatto fatica ad accettare. Come risulta anche da una rapida ricerca, l’Italia – e non c’è sorpresa alcuna – rientra nel gruppo di Stati che non riconosce possibilità di morte dignitosa di nessun tipo, a differenza di Regno Unito, Austria, Croazia, Spagna, Ungheria, Belgio, Paesi Bassi, Finlandia, Svizzera, Lussemburgo, Portogallo e Germania, dove risulta vincolante la volontà del paziente, con differenze legali per ogni nazione. A questo elenco appartiene, poi, anche la Francia dove, però, il testamento biologico è solo uno dei documenti presi in considerazione in fase decisionale risultando non strettamente vincolante.
L’intervento di Bergoglio, quindi, come una piccola perdita dal rubinetto, interrompe il silenzio della notte parlamentare, in cui non si riesce – e non si vuole – discutere seriamente sulle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento), il cui ddl, arenato in Senato da marzo, dopo un lungo lavoro alla Camera, così recita: Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può, attraverso le DAT esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, affidandosi anche a una persona di sua fiducia che la rappresenti nelle relazioni con il medico.
Gli strumenti, dunque, almeno su carta, non sembrano mancare, al contrario di una volontà politica che si nasconde prima dietro la Chiesa, poi dietro il rifiuto del centrodestra, infine dietro un’agenda eccessivamente ricca di appuntamenti, pur di non legiferare, finalmente, sui diritti dell’uomo che hanno – o dovrebbero avere – priorità assoluta. La legge sul fine vita è una necessità, una scelta che non si può più rimandare, affinché una morte dignitosa sia concessa a tutti, liberamente, nel proprio Paese d’origine, senza più discriminazioni elitarie che consentono solo ad alcuni la possibilità di raggiungere altri Stati – in primis la Svizzera – per vedersi riconosciuto quello che è un diritto fondamentale della persona.
L’Italia deve smettere di prendersi tempo perché quel tempo perso tra mille scartoffie e rinvii è solo altro dolore procurato al malato, a chi se ne occupa, alla società tutta. E una comunità che soffre, se non le si somministra la giusta cura, rischia di morire. Di certo, non dignitosamente.