Diane Arbus, nella retrospettiva del 1972, diciassette anni dopo la celebre mostra La famiglia dell’uomo organizzata nel 1955 da Edward Steichen, riuscì ad attirare una folla piuttosto importante al Museum of Modern Art.
All’esposizione di Steichen si era tentato di far convergere cinquecentotre fotografie di duecentosettantatre fotografi di sessantotto Paesi per dimostrare che l’umanità è una e che l’essere umano, nonostante i difetti e le cattiverie, è pur sempre una creatura “attraente”. Nella retrospettiva della Arbus, invece, come racconta Susan Sontag nel suo Sulla fotografia, con le sue centododici fotografie, furono mostrate al pubblico persone ritratte che sembravano tutte la stessa persona, suscitando negli spettatori una profonda angoscia. La fotografa di origini russe e nata nel 1923 a New York, infatti, nelle sue istantanee non immortalava individui dall’aspetto gradevole, ma un vero e proprio assortimento di “mostri” e di “casi limite”. Le sue immagini ritraevano persone esteticamente brutte, in abiti grotteschi e antiestetici, collocate in ambienti tristi e squallidi, che si erano fermate per mettersi in posa e per guardare con franchezza e senza nessun complesso il visitatore. La Arbus, racconta ancora la Sontag, nei suoi scatti voleva sottolineare un concetto chiaro, quello di un’umanità che non è una, senza affatto spingere l’altro a identificarsi con i soggetti ritratti.
Le sue fotografie condividevano un messaggio anti-umanistico che si avvicinava alla volontà degli uomini degli anni Settanta che non volevano essere consolati come gli uomini degli anni Cinquanta, ma piuttosto farsi turbare. Erano immagini che rifiutavano la politica e che suggerivano un mondo nel quale tutti sono stranieri e isolati. L’aspetto che caratterizzava maggiormente la sua opera, però, era la sua adesione a una delle più feconde iniziative della fotografia d’arte, concentrandosi sugli sventurati senza fini pietosi. Non c’era compassione nelle persone patetiche, miserevoli e repellenti che fotografava, il pregio stava proprio nell’obiettività e nell’empatia non sentimentale che aveva creato con loro.
Diane Arbus nelle sue istantanee, che facevano pensare, come scrive la Sontag, a un’ingenuità civettuola e sinistra, creava un rapporto “a distanza” basato, però, sul privilegio, sulla sensazione che ciò che si chiedeva al visitatore di guardare, nella realtà, era un’altra cosa. Lo scopo della fotografa era quello di mostrare a tutti che esiste un altro mondo.
Le persone dall’aspetto “strano” immortalate nei suoi scatti furono scovate in particolare a New York, dove l’artista ebbe modo di raccogliere davvero tantissimo materiale, così come nei dancing per i travestiti, negli alberghi per i diseredati, nei campi nudisti nel New Jersey, in un luna park del Maryland o in un anonimo ospedale psichiatrico. Si trattava di un puntaspilli umano, un ermafrodita con un cane, un tatuato, un ingoiatore di spade albino, quelle singolarità umane che l’obiettivo ha il potere di cogliere. La Arbus inseguì sempre la stranezza per inquadrarla, svilupparla, darle un nome.
La sua opera mostrava che la sensibilità, armata di macchina fotografica, può insinuare eccentricità, angoscia o malattia mentale in qualsiasi soggetto. Le immagini non venivano mai scattate all’improvviso: Diane conosceva sempre prima i suoi soggetti, rassicurandoli perché posassero per lei creando empatia. Questi personaggi avevano diversi gradi di rapporto, inconscio o inconsapevole, con la propria sofferenza o con la propria bruttezza. Non furono mai effettuati scatti di persone che sapevano di soffrire, come vittime di incidenti o di guerra, perché un incidente è un evento che irrompe nella vita, mentre la fotografa era specializzata in tracolli personali che risalivano alla nascita del soggetto.
Come Brassaï, aggiunge Susan Sontag, la Arbus voleva che i soggetti si rivelassero in maniera spontanea, mostrandosi coscienti dell’atto al quale stavano partecipando, incoraggiandoli a essere goffi, ovvero a posare. Seduti o in piedi, impettiti oppure no, gli sguardi erano quasi sempre rivolti alla macchina e ciò li rendeva ancora più strani, quasi pazzi.
Le sue istantanee erano famose già tra coloro che si interessavano di fotografia molto prima del suo suicidio avvenuto nel 1971. Tuttavia, l’attenzione che il suo lavoro attrasse dopo la sua morte fu completamente diversa, un’apoteosi. Il suo suicidio, infatti, le garantì in qualche modo la sincerità della sua opera, facendo apparire anche più rovinose le sue fotografie, come se avesse dimostrato che per lei avevano costituito un pericolo.
Diane Arbus, avendo superato certi limiti, era caduta in un’imboscata psichica, vittima della propria imparzialità e della propria curiosità. Secondo la visione romantica dell’artista, la persona talmente temeraria da trascorrere una stazione all’inferno rischia di non uscirne viva o di emergerne psichicamente danneggiata. Da bambina, la fotografa non aveva mai conosciuto le avversità, ma era stata prigioniera di un senso d’irrealtà e di immunità che, per quanto assurdo possa sembrare, era stato per lei doloroso. Il suo interesse verso il “diverso” aveva espresso il desiderio di profanare la propria innocenza, contestare la sua posizione di privilegio e sfogare la frustrazione di una persona tenuta sempre al sicuro.