Contributo a cura di Samantha O. Storchi.
Ogni giorno assistiamo a una proliferazione incontrollata di immagini che ci sommerge e ci soffoca. Queste sono costantemente intorno a noi, accompagnano ogni momento della nostra vita. Sbucano da ogni schermo o display, ci sovrastano da qualsiasi cartellone pubblicitario e ci conquistano sotto forma di fotografie.
In ogni momento, ciascuno di noi, è bombardato da immagini. Basta accedere con lo smartphone a Facebook o Instagram per rendersene conto. Dozzine di selfie di amici – stretti e non – scorrono sulla nostra homepage. Alcuni attirano la nostra attenzione, altri vengono inconsapevolmente ignorati. Noi stessi, quotidianamente, con dispositivi sempre più nuovi, produciamo fotografie e le usiamo per le nostre condivisioni.
Il risultato è un flusso continuo di immagini nel quale siamo immersi. Viviamo nella “civiltà delle immagini”, definita così dallo storico dell’arte e filosofo francese Didi-Huberman, dove l’immagine spesso diventa muta e non è capace di comunicarci più nulla. La loro onnipresenza non garantisce accessibilità e comprensione e, come ogni eccesso, finisce per provocare perdita di senso.
Ci siamo mai chiesti cosa vogliono le immagini da noi, ammesso che vogliano qualcosa? Proviamo a pensare all’immagine come a una farfalla. Ci sono persone che non vorranno mai perdere tempo a guardarne una e che pensano di non aver nulla da imparare da questi delicati insetti. La farfalla non fa che svolazzare di fiore in fiore, non fa che passare e, perciò, rientra nell’ambito dell’accidente più che della sostanza. Molti credono che ciò che non dura sia meno vero di ciò che dura. È così fragile una farfalla, la sua vita è così breve. Si dirà, allora, che essa distoglie lo sguardo dall’essenziale.
Esistono individui, però, più propensi a guardare. Queste persone credono che l’accidente manifesti la verità con altrettanta precisione della sostanza stessa. Allora accettano di prendersi del tempo per osservare una farfalla che passa.
La nostra farfalla è l’immagine affissa alle pareti di un museo o quella che scopriamo tra le pagine di un album di fotografie. Non basta ammirarne il volo, fragile e meraviglioso allo stesso tempo: l’immagine chiede di essere letta. Ognuna, nella sua ineludibile singolarità, richiede un discorso specifico che tenti di dischiuderne il senso perché l’immagine è costantemente in bilico tra il desiderio che abbiamo di afferrarla e il rischio di annientarla.
Per fare questo, c’è bisogno di uno sguardo attento, uno sguardo capace di individuare il punto in cui “l’immagine brucia”, come ci ricorda Didi-Huberman. L’immagine brucia della verità che vuole testimoniare, brucia del desiderio che la anima, brucia dell’urgenza che intende manifestare, brucia del passato di cui porta testimonianza.
È necessario uno sguardo paziente che sappia opporsi all’iconoclastia paradossale della nostra epoca in cui l’immagine ammutolisce, da un lato, per la poca informazione e, dall’altro, per l’asfissia da moltiplicazione a cui è sottoposta.