Napoli – Edimburgo, due persone, solo andata.
Tre ore e poco più era la durata del volo che ci aveva tenuto a lungo lontani da casa. Eravamo partiti un anno prima per il Regno Unito, stanchi di una città e di un Paese che a noi che avevamo dei sogni, che volevamo vivere di cultura e, soprattutto, di legalità offrivano solo calci e umiliazioni costanti. Di andarcene lo avevamo deciso un sabato sera, un altro chiusi in casa, un altro esausti e privi di certezze per l’indomani. Edimburgo, la capitale scozzese, ci era parsa la meta migliore, convinti da statistiche che la definivano la città più sicura d’Oltremanica, nonché ricca di opportunità che fino ad allora nella nostra terra natia nessuno ci aveva mai offerto.
I mesi di avvicinamento alla data di partenza erano stati un misto di trepidazione, entusiasmo e curiosità, quasi mai di paura o dubbi, anche se il magone nel salutare mamma e papà poco prima di lasciare i bagagli si era fatto sentire eccome. Avevamo ventidue e ventisette anni, una voglia di fare enorme e in tasca i pochi soldi di tanti sacrifici operai. La Scozia si era rivelata per davvero la tappa perfetta, soprattutto per noi che non eravamo in cerca di un’avventura estiva o di un’esperienza da aggiungere al curriculum, bensì di un presente stabile e di un futuro quantomeno immaginabile. In appena tre settimane dal nostro arrivo in terra straniera, avevamo entrambi un lavoro, un accogliente appartamento e un’indipendenza che quasi non avevamo mai creduto fosse realmente possibile raggiungere, almeno non in così poco tempo. Edimburgo, invece, ci aveva insegnato che al di là delle Alpi, al di là di un Paese ossimorico come quello dal quale eravamo consapevolmente andati via, al di là di tutti i rimpianti che a lungo ci eravamo portati dentro, esisteva un mondo normale, un posto dove poter costruire le basi solide della casa del domani, una società dove meritocrazia, dedizione, istruzione e intraprendenza non erano solo belle parole con cui sembrare intelligenti.
I giorni si erano susseguiti rapidi ma pieni, impegnativi ma felici: eravamo atterrati nel luogo giusto. Il riverbero di una frase tratta da un libro al quale eravamo molto affezionati, però, continuava a ripetersi: Non si cresce in un luogo, si cresce in una lingua. Noi eravamo cresciuti in un connubio di dialetto partenopeo e italiano e, in fondo, era in quello che ci eravamo sempre sentiti a casa.
Le parole sono davvero delle scatole sonore che contengono molte cose: hanno a che fare con la nostra vita, oltre che con il loro significato. Involontariamente, custodiscono la nostra memoria. E la lingua dell’infanzia è la più importante di tutte, perché è la lingua nella quale, per la prima volta, si sente nominare il mondo. È la lente attraverso cui lo si scopre, e si continuerà a osservarlo per tutta la vita.
Non avevamo fatto eccezione, nemmeno noi. Nonostante il freddo tagliente, la neve, la luce suggestiva dell’albero di Natale a illuminare il camino e nonostante il conto alla rovescia per l’ingresso trionfale dell’anno novello non ci fosse stato suggerito da Carlo Conti su Rai Uno, la nostalgia, per fortuna, era venuta a farci visita meno volte di quanto avessimo temuto, eppure avevamo iniziato a sentire il bisogno – che, in realtà, non ci aveva mai lasciato – di dire la nostra, di raccontarlo veramente quel mondo, ma nella lingua in cui avevamo sempre sognato, pensato, scritto i nostri sentimenti. Una lingua nella quale poterci esprimere liberamente, senza il timore di sbagliarne l’accento. E, così, con altrettanta consapevolezza, ma questa volta con molti dubbi e paure, avevamo prenotato un altro volo e iniziato un nuovo capitolo con il rischio che diventasse presto vecchio. Avevamo lasciato l’appartamento, il nostro, tutte le certezze che con il tempo ci eravamo costruiti intorno, sotto i piedi, dentro di noi. Sorprendentemente, il ritorno si era rivelata la parte più difficile.
Edimburgo – Napoli, due persone, solo andata.
Che facciamo adesso? Da dove si inizia? Con un sogno testardo, ci sembrava l’unica possibilità. Cercavamo un luogo in cui essere, creiamolo.
Come la chiamiamo? Eravamo in macchina, quello che oggi è, a tutti gli effetti, il nostro ufficio vagabondo, lì dove spesso nascono le bozze dei nostri articoli sulla strada del ritorno da una manifestazione fuori porta o un’intervista a domicilio. Mi piacerebbe qualcosa che richiami un postino. La bicicletta. Sarebbe un nome molto evocativo. Penserebbero a Massimo Troisi. Ce l’ho io il nome giusto: L’Anguilla. La prima reazione fu la stessa che genera uno spontaneo sorriso sul volto di chiunque lo ascolti oggigiorno ogni qual volta ci presentiamo. Perché L’Anguilla?
Eravamo appena adolescenti quando per la prima volta ascoltammo i versi dei 99 Posse. La passione era ancora una fiamma inesperta e desiderosa di vento. Ancora non sapevamo che ne avrebbero alimentato la vita delusioni e disillusioni. Non mi avrete mai come volete voi. L’hai mai ascoltata? Nacque tutto così, da una necessità, da una voce soffocata dalle prepotenze del presente, dalle tante e romantiche analogie letterarie che quel nome si portava dietro naturalmente, da Montale a Jean Rhys, come nella corrente che il pesce serpentiforme genera con il suo nuotare. Il testo della canzone rappata da Zulu e cantata da Meg aveva già inscritte, tra le sue strofe, le linee guida dello statuto di quella associazione che formammo nel giro di pochi mesi a venire. L’Anguilla, in quel suo vortice nostalgico di spontanee espressioni di convivialità, e il romantico rincorrere un ideale irrealizzabile, raccoglieva le nostre preghiere al domani, alimentandosi delle correnti di nuovi cuori. La parola. Tornava ancora lei. Prepotente, dolce, scostumata, timida, dirompente, accogliente. Nei libri individuammo il nostro domani, un punto d’arrivo il cui raggiungimento avrebbe decretato la consapevolezza di un primo, tenero successo, in un giornale trovammo la casa in cui nacquero le idee, in cui, ogni giorno, da allora, rinnoviamo la libertà, un’onda su cui viaggiare la vita.
Come lo chiamiamo? Rieccoci. Di nuovo. Ancora in macchina. I sargassi. Le piante tra le quali proliferano le anguille in quella variopinta porzione di Oceano Atlantico. Bastò il guizzo di una connessione Wi-Fi a farci scoprire che quel nome sinuoso e sgusciante appartenesse già a un noto gruppo di parrucchieri romani. Tutto da rifare. E se lo intitolassimo proprio Mar dei Sargassi? Suonava persino meglio, in una pentagramma di grazia e coraggio. Aveva la forma di un bacino accogliente, un golfo in cui i primi articoli presero presto forma. Ognuno ci ha messo del suo, spaziando nel modesto bagaglio delle proprie esperienze. La fotografia, ad esempio, ha occupato una parte importante del nostro sguardo sulla cultura, i libri hanno arricchito una piccola biblioteca, dai classici ai contemporanei a cui siamo più affezionati. Abbiamo fatto nostri altri lidi, preso a cuore maree isolate come la diversità, la scuola, i più deboli, le periferie, imparando da questi a rivolgere il nostro sguardo curioso più in basso possibile, perché è arrivando agli ultimi che tentiamo di diventare i primi.
A Scampia, ad esempio, non eravamo stati, mai insieme almeno. Entrambi, che fosse di passaggio, per una partita di basket o per un corso di editoria, ci eravamo già andati separatamente, spesso evitando di guardarci intorno. Quella volta, invece, ci era toccato farlo. Ci era toccato metterci in auto – di nuovo – e chiedere aiuto al navigatore affinché ci guidasse verso dei locali che non avevano ancora un nome ufficiale o un’insegna a distinguerli, solo l’ingresso tipico di quello che sembrava essere stato un centro estetico o il negozio di un parrucchiere. Buffo, no? Ripensando alla storia del nostro nome, pareva quasi che il destino volesse indicarci tutta un’altra strada.
Quel giorno non sapevamo ancora che tra le pareti, presto ridipinte di giallo, di una bottega dismessa avremmo scoperto di non essere i soli a sognare il sogno impossibile. Non sapevamo ancora che all’ombra delle Vele, ma alla luce del giorno, a viso scoperto, con sorrisi sinceri e l’ignaro coraggio degli eroi, avremmo trovato una famiglia enorme pronta ad accoglierci e a insegnarci il reale valore dell’umanità. Per noi che avevamo sempre guardato al cielo agognando un aereo poi preso per davvero, per gli ideali che ci eravamo sempre portati dentro, per quella politica del fare nella quale avevamo sempre creduto, quella era la sillaba perfetta per la costruzione di una nuova parola, di una lingua che somigliasse alla nostra dell’infanzia, ma arricchita da un’esperienza sensoriale ed emotiva vera. Insieme, con la stessa dignità di chi ogni mattina ha più di una battaglia da vincere, contro il pregiudizio, lo Stato connivente e la malavita insistente, noi capimmo e continuiamo a imparare che per guardare in alto bisogna prima sperimentare il basso, sentirsene parte, prenderlo per mano e tentare la risalita. Indipendenti, liberi, temerari. Come anguille.
Alessandro e Flavia