Nei mesi scorsi si è assistito a un dibattito acceso su alcuni ristoranti, aerei, hotel e altri locali che hanno iniziato a vietare l’ingresso ai bambini. Il no kids, infatti, ha riempito i titoli di tutti i giornali e scatenato polemiche e discussioni tra i sostenitori e non del bando.
Se prima si discriminavano i cani e gli ebrei, molti hanno rilevato, adesso si è passati ai pargoletti. Si può parlare, infatti, di una vera e propria forma di discriminazione che nasce dal disturbo che i più piccoli, con la loro vivacità spesso poco moderata, possono recare agli altri presenti, a chi vorrebbe usufruire di una permanenza tranquilla, senza schiamazzi e urla infantili.
Come se non bastasse, contemporanea a essa è stata la notizia del no ai gay da parte di un albergatore che non accettava omosessuali nel suo bed & breakfast e che giustificava tale scelta affermando di essere libero di decidere chi far entrare in casa sua.
Libertà di scegliere chi accogliere nelle proprie strutture, quindi, ma sempre meno libertà per le persone di decidere dove andare a cena, pernottare o viaggiare. I requisiti per essere accettati come buoni ospiti sono sempre più numerosi e non basta essere connazionali. Se prima si discriminavano i cani perché appartenenti a una diversa specie, si è poi passati al livello successivo con il colore della pelle e la nazionalità, l’orientamento sessuale, l’età e, caso forse ancor più clamoroso risalente all’8 ottobre, le condizioni fisiche del cliente.
Di fatto, poco più di dieci giorni fa, una donna che soffre di epilessia è stata vittima di un episodio di ignoranza e intolleranza che svilisce totalmente ogni tentativo e battaglia che persone con determinate affezioni intraprendono ogni giorno per sentirsi uguali a chi viene generalmente considerato normale.
A Marotta, Pesaro Urbino, una signora di quarantasette anni si trovava in un ristorante a pranzo con suo marito quando ha avuto un’improvvisa crisi epilettica, durata solo pochi minuti grazie all’aiuto del compagno e di altri presenti che si sono prodigati a soccorrerla. Insensibili di fronte a un probabile senso di disagio e imbarazzo per aver destato l’attenzione di diversi sconosciuti in un locale pubblico, i proprietari si sono sentiti in diritto di rimproverare la coppia e, in particolar modo, la donna per aver spaventato la clientela. Insomma, una persona ha un’improvvisa crisi – che, tra l’altro, si risolve in breve tempo – e le vere vittime sono coloro che vi assistono.
La stessa Federazione Italiana Epilessie (FIE) non ha potuto tacere sul caso, considerata la breve durata dell’episodio in rapporto alla reazione eccessiva dei gestori del ristorante, i quali si sono rivolti in maniera disdicevole al marito recatosi alla cassa per pagare le pietanze, che non erano neanche state consumate, affermando che persone come loro sarebbe meglio se ordinassero e mangiassero la pizza a casa.
Rosa Cervellione, Presidente della FIE, ha dichiarato che non si tratta di un caso isolato ma di uno degli ancora numerosi episodi in cui persone con epilessia sono vittime di discriminazione, conseguenza dello stigma che grava su di loro a causa della malattia e della sua scarsa conoscenza.
Siccome possiamo vantare un’avanzata considerevole nel mondo dell’informazione grazie all’invenzione di svariati canali di comunicazione e, di conseguenza, diffusione del sapere, è inimmaginabile che le crisi epilettiche siano ancora un dato sconosciuto ai più, nonostante se ne parli da anni. Il problema centrale, allora, non risiede nella poca conoscenza che si ha di una patologia simile, ma nelle modalità che l’approccio verso il prossimo ha acquisito ultimamente.
La componente di intolleranza, già esistente con molta probabilità fin dall’anno zero, nei rapporti interpersonali continua a intensificarsi nel tempo, conducendo a una selettività crescente all’interno di un gruppo. Qualunque caratteristica di un individuo che possa essere potenziale fattore di disturbo o distrazione all’interno di un contesto si è soliti bandirla a priori da quell’ambiente, piuttosto che promuovere una maggiore accettazione verso tali realtà. Si ricercano tra le persone una perfezione e un ordine che non esistono in natura, e piuttosto che fare un passo verso le esigenze di chi vive in condizioni problematiche (ma anche no), si costringono tali soggetti ad adattarsi o, in alternativa, a rassegnarsi all’emarginazione.
È sufficiente una minima diversità, un solo elemento di fastidio, per rischiare di non essere ammessi in una pizzeria o di dover cambiare compagnia aerea per un volo. E questa è una dissezione dell’umanità che ai più va bene, perché è più semplice così, perché l’indulgenza e la comprensione richiedono uno sforzo maggiore rispetto alla discriminazione netta e rapida. Si finisce così per sentirsi sempre più tagliati fuori, non idonei a standard sempre più alti, incapaci di accettare se stessi in una realtà ostile e chiusa all’inconsueto, a ciò che generalmente non ci appartiene.