Quando la realtà supera la fantasia, come scrisse una volta il grande drammaturgo Luigi Pirandello, pare riprendendo un vecchio detto popolare, allora si può realizzare un’opera d’arte straordinaria – proprio nel senso di fuori dall’ordinario già ideato e rappresentato – come il film A Ciambra di Jonas Carpignano.
Il giovane regista, che si è formato tra l’Italia e gli Stati Uniti, aveva in passato realizzato un cortometraggio dallo stesso titolo, distinguendosi, in seguito, al Festival di Cannes del 2015 nella Semaine de la Critique con il suo primo lungometraggio Mediterranea.
A Ciambra, invece, è stato selezionato e premiato quest’anno a Cannes, nella sezione indipendente Quinzaine des Realisateurs del Festival, ottenendo consensi di critica e di pubblico. L’opera è stata scelta per rappresentare l’Italia alla corsa agli Oscar per il miglior film straniero.
Carpignano ha raccontato di essere capitato per caso – mentre girava materiali per un altro progetto e in seguito al furto della sua auto – nella comunità rom chiamata A Ciambra, nei pressi di Gioia Tauro, in Calabria, dove esiste realmente la famiglia Amato, protagonista del film.
La narrazione gira – anche nel senso “fisico” del pedinamento cinematografico – soprattutto attorno alla figura del piccolo Pio, che è uno di quegli esseri umani a cui sta stretta ogni etichetta psicologica e sociale. Né “bambino” né “ragazzo” ma uomo in miniatura, Pio si comporta ed è trattato come tale, salvo quando gli adulti della comunità lo rimettono in riga se supera quei limiti che possono mettere in pericolo la famiglia e il gruppo etnico e sociale di cui fa parte. Questo succede, ad esempio, quando il suo comportamento crea problemi di convivenza tra la comunità rom e gli italiani, soprattutto i malavitosi che vivono in alcune ville dei dintorni o in città.
Il piccolo che vive da grande, nel degrado fisico e sociale, è curioso della vita, comunque, e degli esseri umani. Perfino dei marrucchini, come i rom chiamano gli immigrati africani presenti nella zona, con una definizione tanto generica quanto negativa. È per questo che l’amicizia che nasce con Ayiva, un giovane della comunità africana, è tenuta nascosta. Un’esperienza di vita diversa che il protagonista decide di tenere tutta per sé, senza condividerla con la sua famiglia, soprattutto con il fratello Cosimo, uno dei più attivi nell’intrattenere rapporti pericolosi con la delinquenza locale.
Ci pensa anche il nonno a chiamarlo in disparte e a raccontargli di quando i rom vivevano liberi e sempre sulla strada. Ora, le famiglie della comunità vivono nel ghetto della discriminazione fisica, economica e sociale. E ricorda, gli dice il vecchio, siamo noi contro tutti.
Il film termina con il tradimento imposto a Pio proprio nei confronti della comunità africana, che lo aveva accolto come un simpatico ospite. Il “premio” che il ragazzo riceverà appartiene a quei “riti di passaggio” che sanciscono, in maniera informale ma determinante, l’appartenenza al gruppo degli adulti: il sesso con una matura prostituta e il distacco dai rapporti quotidiani con i bambini e i ragazzi della collettività.
In quest’opera più che in altre, ci appare fuorviante la vecchia e schematica distinzione tra il cinema “realistico e documentaristico” e quello “di finzione”. Quando un’opera vuole riprodurre la realtà, non ci riesce senza reinventarla in forma di spettacolo. Specularmente, la più irreale rappresentazione artistica esprime sempre motivi e sentimenti che provengono dalla contingenza della nostra esistenza.
Realtà e finzione fanno parte di A Ciambra grazie a un anarchico e felice superamento dei generi e all’articolata coesistenza tra l’antropologia documentaristica sul problema dell’appartenenza e dell’identità e la visionarietà che rimette in scena quella realtà che supera la fantasia e che aspetta soltanto di essere “svelata” con le tecniche dell’arte.
E che dire di una delle scene finali del film, che è “melodrammatica” ma senza la falsità e la ruffianeria di tanta cinematografia dei nostri giorni, con il pianto-confessione di Pio tra le braccia di Ayiva?
Dice a tutti noi, tra realtà e sua rappresentazione filmica, che i sentimenti, in certi luoghi e in un dato tempo, sono la cosa più importante per la vita personale, proprio quando, nella vita sociale nella quale si è immersi, sembra che non contino più nulla.