E qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure di un Paese che ancora non esiste. Ne è una prova il fatto che se in Lombardia e in Veneto possono concedersi il lusso di indire un referendum per richiedere maggior autonomia, allo scopo di provare a trattenere direttamente sul territorio più risorse di quante già ce ne siano, a Taranto c’è ancora chi ha da scegliere se continuare a lavorare per mantenere famiglie monoreddito al prezzo della vita degli stessi lavoratori o se farsi licenziare avendo in cambio salva la vita, ma senza poter dar da mangiare a se stessi, né alla propria famiglia, oppure emigrare.
Ma andiamo per ordine, cominciando però dalla fine, in considerazione della momentanea posizione di contrasto assunta da parte del ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda nei confronti della trattativa con la nuova proprietà ILVA, responsabile di un eccesso di esuberi o, per meglio render giustizia all’italico idioma, licenziamenti, previsti dal nuovo piano di ristrutturazione aziendale, mentre gli operai lottano tra la vita e la morte così come, a onor del vero, anche quelli di Genova, con la differenza che a Taranto, così come in molte altre realtà del Centro-Sud, in alternativa al lavoro, per cui si è spesso condannati a morte per il resto della vita, non c’è nulla.
Ah! Terroni sfaticati, arretrati, sempre pronti a lamentarsi, anziché accontentarsi di quel po’ di lavoro che c’è, buono almeno a pagare le tasse per garantire servizi, costruire infrastrutture e far funzionare un minimo le cose!
Questo è in estrema e becera sintesi il pensiero e quindi il motivo per cui molti hanno ritenuto valido avanzare una richiesta di maggiore autonomia dallo Stato centrale, mascherando in realtà il vero obiettivo, che rimane, se non più l’indipendenza, quantomeno l’ottenimento di uno Statuto Speciale al pari di altre Province e Regioni italiane che già ne godono. Quello che ne deriverebbe sarebbe dunque un’induzione dell’intero Paese a rifarsi il trucco in chiave federalista, vecchio pallino della Lega, la quale potrà così misurare e dimostrare al tempo stesso, per via referendaria, il proprio peso contrattuale in vista delle prossime elezioni politiche che si terranno su base proporzionale come da legge recentemente approvata a colpi di fiducia.
Altri invece, in maniera perfettamente speculare e sulla base dello stesso tipo di interesse, propendono per la variante buonista, se si va antiteticamente ad analizzare quanto sta accadendo in modo macchiettistico in relazione alla possibile approvazione del cosiddetto Ius Soli, il quale, se colto invece in un’ottica di lungo periodo e dunque nella sua vera natura di Ius Culturae, potrebbe andare seriamente ad aprire la nostra società vecchia e stantia a un mondo fino a questo momento solo subito.
Vediamo allora quali sono i quesiti referendari. In Lombardia, dove non è previsto un quorum, verrà chiesto agli aventi diritto: Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato? In cambio, in Veneto, dove, invece, è previsto il quorum sarà domandato: Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?
È legittimo tutto questo? Certo che sì, la Costituzione lo prevede, tanto più se si tratta di un referendum consultivo, ma allora perché non rompere una volta per tutte gli indugi e proporre la stessa tipologia di voto in ogni regione e verificare l’anima di un popolo che è stato unito con la forza, ma che al di fuori degli stadi, non si è ancora mai sentito tale?
In definitiva, sono quesiti referendari questi che, pur nella loro legittimità costituzionale, denunciano il non-senso profondo di uno Stato senza statisti poiché senza un popolo che sia in grado di esprimerli. Dopo che per centocinquantasette anni abbiamo continuato a chiamarci Fratelli, forse è necessario provare a rendersi dolorosamente conto che non solo gli italiani non sono mai stati fratelli, ma che anche l’Italia va sempre più configurandosi, dalla sua nascita a oggi, come una Patria non sentita poiché mai desiderata in quanto imposta. A vantaggio di chi? Non lo so per certo, ma so che […] Noi fummo da secoli calpesti, derisi, poiché non siam popolo, poiché siam divisi […]. Siamo sicuri che convenga continuare a esserlo?