Il mese di ottobre si è aperto, in Austria, con una nuova legge. Da domenica, infatti, sono entrate in vigore le misure proposte da Sebastian Kurz – ministro degli Esteri e leader del Partito Popolare Austriaco (ÖVP) – e approvate dal Parlamento federale lo scorso 8 giugno contro i veli islamici burqa e niqab. Il testo tenta di rifuggire da ogni accusa di discriminazione facendo riferimento non ai tradizionali capi d’abbigliamento delle donne musulmane, ma a qualsiasi indumento (compresi passamontagna, maschere e caschi) che renda il volto irriconoscibile nell’ambiente pubblico, salvo contesti che ne richiedono l’uso.
La nuova misura legislativa è stata per questo definita AGesVG, acronimo di Legge contro la copertura del volto, ma genera serie perplessità il fatto che sia conosciuta con l’espressione Burqa Verbot, divieto del burqa, tra gli stessi austriaci. Il governo, inoltre, ha rilasciato degli opuscoli (tradotti in quattro lingue: inglese, arabo, turco e tedesco) che illustrano i vari casi in cui si rischia una sanzione fino a centocinquanta euro – oltre che l’obbligo a rilasciare le proprie generalità in commissariato – e su cui, come esempio di indumenti non accettabili, spiccano proprio le immagini del burqa e del niqab.
La prima occasione in cui tale normativa è stata applicata, tra l’altro, si è avuta a Salisburgo, dove una donna musulmana che indossava il velo ha dovuto scoprirsi il capo in presenza di due agenti di polizia.
L’attuale Cancelliere austriaco Christian Kern si è mostrato aperto sostenitore della nuova legge, affermando che l’accettazione e il rispetto dei nostri valori sono una condizione di base per una convivenza pacifica tra la maggioranza degli austriaci e le persone straniere che vivono in Austria.
Il nuovo provvedimento, però, più che favorire l’integrazione tra cittadini austriaci e persone straniere, ha spaccato la nazione in due, vedendo da un lato una destra soddisfatta e dall’altro il malcontento della sinistra, delle comunità islamiche e, in generale, dei cittadini più tolleranti, che sono scesi in piazza a protestare con maschere, sciarpe e costumi.
Con il Burqa Verbot, l’Austria si affianca a Paesi come l’Olanda e la Gran Bretagna, che vietano l’utilizzo degli indumenti in questione nelle scuole pubbliche. Una proposta contro il volto coperto negli istituti scolastici e nelle università, inoltre, è arrivata anche in Norvegia. Questo tipo di abbigliamento, spiega il ministro dell’Istruzione e della Ricerca Torbjorn Roe Isaksen, impedisce una buona comunicazione, importante per l’istruzione degli studenti. Anche in questo caso, però, le dissidenze non sono mancate, considerando che nello Stato nordeuropeo burqa e niqab conoscono tra le donne musulmane una diffusione molto limitata.
Analogo è l’esempio della Francia, prima a imporre sanzioni di questo genere, in cui dall’11 aprile 2011 è prevista una multa per chi indossa il velo integrale e, addirittura, il carcere per coloro che costringono le donne a coprirsi il viso.
Nonostante le larghe proteste nelle nazioni in cui è entrata in vigore tale proibizione, percepita come una violazione della libertà di religione ed espressione, però, le autorità che sostengono la legge contro i veli integrali islamici non conoscono ripensamenti.
Sempre in Francia, nel 2014, in seguito al ricorso di una donna musulmana contro la nuova legge, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha reso chiara la sua posizione, affermando che essa non viola il diritto alla libertà di religione né quello al rispetto della vita privata, ma persegue lo scopo legittimo di proteggere i diritti e le libertà altrui e di assicurare il rispetto dei minimi requisiti del vivere insieme.
Eppure anche in Francia, come in Norvegia e in Austria, la tradizione del velo integrale appartiene a una percentuale limitata, soltanto a duemila donne dei cinque milioni di musulmani che vivono nel territorio francofono. Perché, allora, tali Paesi si prodigano con tanta forza a contrastare un fenomeno così ristretto? Si tratta davvero di voler semplicemente favorire l’integrazione tra i nativi e una minoranza?
Nello stesso Stato transalpino, l’allora presidente Nicolas Sarkozy, in concomitanza dell’ufficializzazione del nuovo divieto, aveva dichiarato che i veli opprimono le donne e non sono benvenuti. Ciò dimostra la visione da parte dell’Occidente dell’utilizzo di veli integrali come lesivo della libertà e della dignità della donna, un atto di sottomissione a cui molte islamiche non hanno modo di sottrarsi. Si sente spesso parlare, difatti, di musulmani che costringono le mogli a uscire sempre e solo coperte, ricorrendo a minacce e violenze. Ed è così che si immaginano molte donne che indossano il burqa o il niqab: costrette, oppresse. Se a tutto questo si aggiunge il clima di terrore generato dai numerosi attentati compiuti negli ultimi anni in nome di Allah, aumenta vertiginosamente la fobia verso ciò che è legato al mondo musulmano.
Basti pensare alla recente notizia, che appariva fasulla per la patetica gaffe riportata, di un gruppo nazionalista norvegese che ha pubblicato su Facebook la fotografia di un autobus i cui sedili vuoti sono stati confusi con delle donne in burqa, causando commenti di disprezzo verso le immaginarie musulmane e di terrore all’idea che sotto i presunti veli potessero esserci nascoste delle armi.
Tornando indietro al 2016, clamoroso fu il caso del ministro per l’integrazione norvegese, Sylvi Listhaug, che aveva dichiarato: Qui mangiamo carne di maiale, beviamo alcolici e mostriamo le nostre facce. Bisogna rispettare i valori, le leggi e le regole della Norvegia quando arrivi qui. Le sue affermazioni causarono un tale scalpore da parte dell’opinione pubblica che in molti ne chiesero addirittura le dimissioni.
Uno dei tanti casi di intolleranza verso i costumi islamici, inoltre, si è verificato in Italia la scorsa settimana. Presso l’aeroporto di Orio al Serio (Bergamo), Nadia Bouzekri, presidente dell’associazione dei Giovani Musulmani d’Italia, è stata insultata da un’addetta alla sicurezza per aver respinto l’invito degli agenti di frontiera a spogliarsi del proprio velo in pubblico, procedura del tutto fuori luogo giacché si ha il diritto di farlo in un ambiente riservato.
Il malcontento generale, nelle varie nazioni, nei confronti dei veli integrali – ma non solo, a voler essere precisi – islamici, ha sicuramente contribuito in maniera decisiva alla decisione di varare leggi che ne ostacolano l’uso. L’unico fine di una simile scelta politica, infatti, potrebbe non essere soltanto quello nobilissimo di favorire l’integrazione tra culture tanto diverse tra loro.
In Norvegia, ad esempio, dalla Legge contro la copertura del volto pare abbiano tratto grandi benefici i partiti di destra, in vista delle elezioni che – guarda caso – saranno a breve, il 15 ottobre.
In Italia, invece, la Regione Lombardia, sotto la guida del leghista Roberto Maroni e con l’immancabile sostegno di Matteo Salvini, ha fatto sì che dal 1 gennaio 2016 entrasse in vigore il divieto di indossare il burqa e il niqab in ospedali, musei e teatri. Iniziativa, questa, considerata mera propaganda dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, il quale ricorda che la legge c’è, non si avverte l’esigenza di inventarsene di nuove.
E, così, numerosi Paesi europei hanno sentito di voler iniziare, in forme più o meno esplicite, una battaglia contro una pratica di origini antichissime al fine di “occidentalizzare” la parte più conservatrice dell’Islam. È fondamentale, infatti, sottolineare che è di questa che si tratta. Creare un’associazione imprescindibile tra la religione islamica e i veli integrali è scorretto, poiché addirittura in Paesi come l’Egitto ne è stato vietato l’uso in diversi atenei, ritenendo tale tradizione lontana dall’Islam, secondo le parole dello sceicco Muhammad Tantawi. Lo stesso è accaduto in altri territori di religione musulmana, come Turchia e Tunisia.
Anche nel mondo islamico sta avvenendo un’importante svolta, seppure se ne parli in misura ridotta, o non se ne parli affatto. Sicuramente, nelle nazioni laiche o di altre religioni in cui si sta bloccando l’uso dei veli citati, qualsiasi mezzo che possa costituire un ausilio per la complessa convivenza con una cultura diversa non va trascurato. Tuttavia giustificare iniziative simili con intenti di integrazione e svilupparle in modo tale da provocare maggiori attriti, dando ai cittadini nuove ragioni per covare odio e rigettare chi è diverso, è solo una grandissima trovata ipocrita che, purtroppo, riesce anche bene.