‘O vicolo ‘e l’allerìa, dicono, è un luogo che non esiste, un posto speciale dove lasciarsi andare a un canto stonato, a un ballo incontrollato dettato dal ritmo di piedi che, come in una tarantella, si agitano sui sampietrini degli errori di una città maledettamente bella e sbagliata. Una stradina stretta dove dimenticare la perfezione di un mondo che si agogna ma non esiste e l’imperfezione di ciò che, invece, si ha tutto intorno. È la libertà di un tuffo senza costume nel mare del Golfo e la malinconia di una tromba che preannuncia la notte. Un vicolo nostalgicamente allegro che si ha la sensazione e la voglia di percorrere mentre si chiacchiera, tra un morso a una pizzetta ormai fredda e un sorso di cedrata, con Roberto Colella, voce, parole, tastiera e chitarra de La Maschera, gruppo musicale formato da cinque talentuosi ragazzi che hanno ridato nuova vita e dignità alla tradizione canora partenopea grazie alla loro straordinaria passione.
Occhi stanchi ma tenaci e folti capelli ricci, lo abbiamo incontrato, Roberto, in una calda serata di settembre, non a caso, nel cuore di Napoli, lì dove la musica risuona a ogni ora e il secondo album della band, ParcoSofia, sta per essere ufficialmente rilasciato.
Il vostro secondo album, ParcoSofia, è prossimo a uscire. Ce lo racconti?
«Il secondo disco è una fotografia dei cambiamenti personali, una diapositiva di tutto ciò che è stato dal precedente album in poi. Rispetto al primo, che è figlio di ogni aspetto della vita vissuta fino ad allora, c’è un margine d’azione più scarno. La cosa migliore da fare, quindi, è fare più cose possibili. In più attività riesci a impegnarti in quel frangente, più esperienze hai da raccontare! Per mia fortuna, posso dire di non aver vissuto questa nuova produzione come un qualcosa che andava fatto, e andava fatto in un certo modo, mi sono limitato piuttosto a musicare le canzoni che ho scritto negli ultimi due anni e mezzo. ParcoSofia è composto soltanto da storie vere, reali, storie rese inverosimili, spersonalizzate dai personaggi che le hanno composte. Tutto è nato dalla voglia di raccontarle. Negli ultimi due anni e mezzo sono successe tantissime cose, tra cui un viaggio in Senegal che ha condizionato, oltre che la mia vita, anche l’aspetto musicale del disco. Altri, invece, sono aneddoti che ho ripescato dal mio passato, come per la canzone Palomma ‘e mare, una storia accaduta dodici anni fa. Mio nonno era in mare con la sua canna e, mentre un piccione scendeva a pesca, lui tirò la lenza che si attorcigliò attorno all’animale, tirandolo a bordo. Nei momenti particolari della vita capita di vedere significati altri lì dove sembra non ce ne siano, si riesce a trarre una metafora persino dal piccione in gabbia che, quando mia nonna si rifiutò di mangiarlo e fu liberato, continuava a guardarci tutti, non voleva andarsene più. Sembrava convinto che la sua sorte fosse segnata, appariva come rassegnato al suo destino. Il piccione è un po’ come il popolo in tutti i momenti della sua storia, non ha catene ma non se ne va, è uno schiavo senza catene che, però, ama il padrone. Ci sono momenti in cui ci si rende conto che persino un piccione di mare rappresenta qualcosa altro.»
Sembra, da come ne parli, che tu abbia utilizzato questo stratagemma anche nella scrittura di qualche altra canzone. Quale?
«Ho scritto varie canzoni che nascondono un secondo significato, è un gioco che mi piace fare con i miei testi. L’argomento superficiale è il primo che giunge a un ascoltatore distratto, come nel caso di N’ata musica, in cui la maggior parte delle persone riconosce il tema dell’amore, della fertilità e dell’aridità. In realtà, qualcuno che me l’ha sgamata c’è stato, qualcuno ha capito cosa rappresentasse per davvero.»
ParcoSofia sarà un concept album oppure è sbagliato definirlo così?
«No, non credo si possa parlare di concept album. Il secondo disco di Capitan Capitone lo è, sicché verte interamente attorno a un’unica storia. Nel caso di ParcoSofia, invece, di storie ce ne sono tante. Lo stesso discorso vale per ‘O vicolo ‘e l’allerìa, un posto che accomuna tutti ma che non esiste. ParcoSofia, per il modo in cui è stato concepito nel titolo, è il parco in cui tutte queste storie sono raccolte, anche perché qualcosa di vero ParcoSofia, invece, ce l’ha.»
Veniamo al titolo, da dove nasce?
«ParcoSofia ha un forte significato nell’etimologia del nome. Significa moderarsi in sapienza, ed è un qualcosa di cui si avverte il bisogno. Oggi tutti sanno tutto di tutto, quindi può essere visto anche come un consiglio. La fortuna, poi, ha voluto che questo nome stesse bene con quello del parco in cui sono nato e cresciuto a Villaricca, Parco Sofia appunto, un agglomerato di case popolari in cui risiedono falsi eroi, gente afflitta da tanti problemi che, però, affronta la vita con una dignità ben superiore alla media dei posti che ho visto e vissuto in generale, anche più benestanti, dove la condizione sociale è molto più alta. Dignità e coerenza. Parlando di radici, devo moltissimo a Napoli, ma devo moltissimo innanzitutto a questa isola che è Parco Sofia. Mi elettrizzava l’idea di entrare a fondo in questo sistema in cui diverse specie umane, diversi “fenomeni da baraccone” convivono gli uni con gli altri. Ciò che accade lì dentro è un vero miracolo.»
Caparezza cantava che il secondo album è sempre il più difficile per la carriera di un artista. È una difficoltà che hai riscontrato anche tu?
«Chest’è ‘na bbona frase pe’ vendere! È difficilissimo, è vero, però molto dipende, a mio modo di vedere, da tanti fattori diversi. Innanzitutto, se non ti senti un artista, se non ti ossessiona l’idea della carriera, allora, no, diventa tutto facile. Non amo la definizione di artista, così come quella di cantautore. Sono ancora convinto di non saper scrivere, come lo ero dopo la prima canzone che ho composto. Le volte che mi capita di mettere il punto finale a un mio testo e ne scopro l’esito, mi dispero al pensiero che non mi capiterà più. N’ata musica tratta proprio di questo, di quella magia della composizione di un brano che so che prima o poi svanirà. Questa è in realtà N’ata musica, questa è la mia paura. A dirti la verità, invidio chi riesce ad auto-definirsi un cantautore, chi ne ha la costanza per attribuirsi autonomamente tale titolo. Credo mi spaventi il far parte di una categoria, provo a spiegarmi: se fossi pizzaiolo, le persone si aspetterebbero che fossi in grado di fare una buona pizza. Allo stesso modo, da un cantautore ci si aspetta che imbracci la chitarra e sia in grado di comporre, ma non è detto che una volta che io cominci a suonare riesca in quell’intento. Suono perché mi piace suonare. Amo anche scrivere, ma non è una cosa a cui riesco a dare continuità e quando mi riesce faccio i dischi, ecco da dove nasce il nuovo album. Per questo motivo mi diventa complicato pensare di farlo per il solo scopo di vendere. Oggi siamo tutti vittima di un forte handicap, un dramma che è sviluppato dai social, che è l’essere costantemente sotto i riflettori, la gente si aspetta sempre qualcosa. Già il palco è un enorme amplificatore, il rischio di non piacere è sempre altissimo. Il secondo disco diventa difficile se si vive male questa condizione, se si subisce la paura che le persone possano ascoltare qualcosa di diverso e non riconoscerti. Se, però, come me, si vive in una condizione di sincerità, allora il problema non si pone.»
Sei l’unico autore dei testi e delle musiche de La Maschera?
«Sì. Da un lato, avrei piacere se anche gli altri membri della band scrivessero, è il bello del confronto. Dall’altro, impronto molto questo discorso come un qualcosa di estremamente intimo e io non sono bravo, non sarei così convinto e convincente nel cantare qualcosa che non è la mia. Quando una canzone è personale, in essa c’è il momento in cui l’ho concepita, in cui ho intrappolato un sentimento difficile che possa cambiare nel tempo, anche perché scrivo soltanto quando sono totalmente convinto di una determinata cosa. La scrittura è un fatto intimo, come fare l’amore. Il concetto secondo me è identico. Lo faresti se qualcuno ti guardasse? È brutto, nun è ‘o vero? Perdi di concentrazione. Se stai facendo l’amore con quello che stai componendo, e c’è un altro che dice anche solo una parola sbagliata, fuori posto, ha distrutto tutto. Guarda la tua canzone e la giudica, come se guardasse la tua ragazza. Credo sia l’unica immagine che possa rendere l’idea di come mi sento.»
Torniamo indietro nel tempo all’album che avete appena mandato in pensione, ‘O vicolo ‘e l’allerìa. Vi ha dato un’incredibile soddisfazione. Te l’aspettavi?
«Assolutamente no, non me l’aspettavo per niente. Mi piaceva l’idea di catturare alcune immagini, raccontarle con il minor numero di parole possibile, come per Pullecenella, che in genesi era un testo molto più lungo, poi lavorando per scarnificazione si è creato quell’è cos’ ‘e niente, i’ me ne vaco p’ ‘a strada mia, vieni cu’ mme […]. In quel caso, il mio tentativo verteva attorno all’idea di provare a dipingere una maschera napoletana che incarnasse quelli che sono tutti i valori negativi possibili. La melodia spiazza, inganna, lo veste di abiti eleganti, ma ognuno, quando urla la canzone ai nostri concerti, sta mettendo dentro quelle strofe i drammi della città che conosce e subisce, forse anche un pizzico dei drammi di se stesso. La melodia, dicevo, ispira la storia di un personaggio di un certo valore, invece il testo gli associa un elemento che è completamente negativo, e l’effetto scompare. Quel suo carattere strafottente, che lascia tutto correre, lo sintetizza questo posto che non c’è, ‘o vicolo ‘e l’allerìa, il mio mondo perfetto, che però non ha modo di concretizzarsi nella realtà. Pullecenella vive in un mondo che non è reale e il motivo è che a Napoli un antieroe come lui non ha possibilità di vivere. E siccome non può esistere, non può esistere nemmeno il suo mondo, il suo contesto.»
Altra canzone a cui dovete molto è La confessione che, però, sembra vivere in autonomia rispetto al resto del disco, come se non seguisse il filo conduttore che unisce le altre tracce. Non credi anche tu che sia così?
«Non saprei. Come ti ho detto, scrivere canzoni è questione di fortuna. La confessione ci ha dato una soddisfazione incredibile. Era nata dalla descrizione di una maschera napoletana che è quella della capera. Nelle mie intenzioni, inizialmente, il personaggio principale voleva essere una signora fuori al proprio vascio, poi gli argomenti si facevano via via sempre più seri e ho pensato di affidarli a una figura neutrale, a un personaggio che potesse raccontare queste cose senza dare il suo parere, una persona super partes che, poi, si scopre uguale agli altri, anche nelle debolezze. Nonostante ciò, l’idea di optare per il prete era affiancata all’ipotesi, poi concreta, di non nominarlo mai. Chi ascolta il brano deve immaginarlo, ma in realtà non c’è nulla che richiami specificamente a un parroco.»
Temi spesso centrali delle tue canzoni sono Napoli, la guerra napoletana, andare, emigrare, restare. Perché? Tu sei rimasto.
«Sono rimasto e sono contento di restare. Il tema delle partenze, tuttavia, mi tocca molto da vicino, l’ho vissuto profondamente. Per brevi periodi sono andato, in tanti momenti sono stato vicino al partire, quindi, forse, è questo che me lo fa ritornare a galla di tanto in tanto. Se ci pensi, è una metafora di Napoli, che la si ama e la si odia, e questo è uno dei motivi. In Dimane comm’ ajere, ad esempio, il tema è presente ma affianca quello dell’infanzia, più volte ricorrente nel disco che sta per uscire. Mi sento ancora molto legato ai miei anni da ragazzino.»
Sono curioso di sapere di più del viaggio in Senegal, come ti ha condizionato?
«La prima cosa che pensai una volta lì fu: come posso raccontare quanto sto vedendo? Non è semplice descrivere quello che si vive laggiù. Si viene travolti dalla semplicità, da un’energia che fa apprezzare realmente le piccole cose, la felicità. La nostra società tende a ricordare più spesso i momenti di dolore, in Africa ti insegnano a ricordare di quando sei stato felice, dei momenti di gioia. La filosofia è questa: il dolore passa, la felicità resta, nonostante i presupposti per essere felici non ci siano del tutto. Lo slancio che si respira verso la gioia è qualcosa che mi ha sconvolto. Come mi ha influenzato? Dal giorno del mio rientro, non sono più riuscito a guardare le cose allo stesso modo, soprattuto gli sprechi. Lì con tre euro compravo pacchi di patatine a quaranta bambini, mentre una volta in Italia ho trovato ad accogliermi l’ennesima corsa all’ultimo modello dell’iPhone. Fa male. C’è, però, una magia che è la stessa che riscontro nei napoletani, che è poi il motivo per cui Lucio Dalla era innamorato di Napoli e dei suoi abitanti. Perché quel nostro modo di affrontare la vita, ce l’ha dato l’Africa, anziché Torino o Milano.»
Chiudiamo con il rapporto con i vostri fan, i vostri amici, quindi con i concerti dal vivo. Sembra che vi divertiate. È vero?
«È verissimo. Mi fa impazzire vedere la gente che sorride. Dico spesso a me stesso che non potrei fare generi ‘‘estremi’’. Osservare facce tutt’ ‘ngazzate nun fa pe’ me, saje che paura?! Adoro la gioia di scorgere persone che stanno bene mentre io sto bene, mentre sono nudo, perché sul palco ci si spoglia di tutto e si è alla mercé di tutti, di chi vorrebbe accoltellarti e chi probabilmente abbracciarti. Vedo gente felice, emozionata, e lo sento da tante cose, dalle vibrazioni che arrivano. Quando canto Serenata maledetta, o N’ata musica, ad esempio, il volto di chi sta condividendo quello che sto provando io è lo stesso. Infine, ci sono pezzi che è proprio divertente suonare. È quello il nostro segreto: noi ci divertiamo come matti!»