Con superbo slancio patriottico sapeva ritrovare, in mezzo al lutto ed alle rovine, la forza per cacciare dal suolo partenopeo le soldatesche germaniche sfidandone la feroce disumana rappresaglia. Impegnata in un’impari lotta col secolare nemico offriva alla Patria, nelle “Quattro Giornate” di fine settembre 1943, numerosi eletti figli. Col suo glorioso esempio additava a tutti gli Italiani, la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria. – Napoli, 27-30 settembre 1943, Medaglia d’Oro al valor militare.
Abbiamo tutti, noi che siamo cresciuti tra le strade del capoluogo campano, un ricordo legato alle Quattro Giornate. Che la reminiscenza sia diretta o tramandata, in fondo, quei giorni incredibili li ha vissuti ogni napoletano. La mia è legata a mia nonna paterna e ogni volta che ci ripenso mi fa sorridere come se fosse la prima.
Quel giorno (era il 27 settembre del ’43), per strada, c’era una grande confusione. Stavo tornando a casa, quando vidi una camionetta con dei giovani a bordo che volevano ci ribellassimo ai Tedeschi. Urlavano. Qualcuno parlava già di morti ammazzati, ma io non ne sapevo niente. Avevo diciotto anni e una bambina di poco più di dodici mesi. Mi spaventai e allora iniziai a correre lungo il vicolo, quella maledetta salita, e affannando avvisai tutti: “Le Quattro Giornate! Le Quattro Giornate!”.
Ebbene sì, mia nonna lo sapeva. Sapeva già che sarebbero bastate novantasei ore e che quei giorni sarebbero passati alla storia con tale dicitura: le Quattro Giornate di Napoli. Ogni volta che glielo abbiamo fatto notare o che le abbiamo detto che il suo racconto risultava alquanto inverosimile, però, si è sentita offesa. Era andata esattamente così: Mergellina l’aveva avvisata lei in anticipo, nella sua corsa allarmata e stancante verso casa. La convinzione con cui negli anni lo ha sempre sostenuto, qualche dubbio, a noi scettici, lo ha fatto venire comunque.
La guerra aveva bussato presto alle porte di ogni casa napoletana, o almeno di quelle che resistevano ancora. Aveva bussato anche a quelle della mia famiglia, portando via uno zio – cognato di mia nonna –, scampato al forno crematorio e alle fatiche di un campo di concentramento per pura fortuna, ritrovato poi alla stazione Garibaldi dopo anni di vagabondaggio e follia. Quell’insensato conflitto stava distruggendo famiglie, strappando giovani in forze alle loro madri già private dei propri mariti forse vivi al fronte, spargeva miseria. Quelle urla di ribellione, quindi, rappresentavano per chiunque fosse in territorio partenopeo il punto di svolta, l’occasione per venirne fuori una volta e per tutte. Fuori dai violenti conflitti, dalle bombe – prima tedesche poi americane – che cadevano incessanti dalle quattro e venti del mattino del primo novembre del 1940, fuori da quella fame che faceva mangiare di tutto, persino le bucce delle patate o dei piselli. Fuori dalla paura di un allarme improvviso e dalla fuga di salvezza nei ricoveri improvvisati o sotto l’attuale tunnel della Cumana di Montesanto. Lì, dove c’era una statua della Madonnina, ancora oggi visibile dal treno, a cui in tanti hanno affidato le loro preghiere. Fuori dal ricordo di una città che non era più la stessa da quando la pazzia nazista l’aveva travolta per poi lasciarla andare nelle mani dell’ipocrisia alleata. Fuori da una fine prematura.
Partenope, che Hitler avrebbe voluto ridurre in fango e cenere, stava dicendo mo’ basta, il popolo aveva fatto la sua scelta, pronto, nella sua impreparazione e, spesso, improvvisazione, a cambiare le sorti sue e di un’intera nazione che di oppressione e sofferenza non ne poteva più. Con coraggio ed esasperazione la città si stava rivoltando all’invasore tedesco, ignorando tuttavia che, di lì a poco, un nuovo nemico avrebbe fatto trionfale il suo ingresso, travestito da alleato.
Napoli sepolta nella guerra non aveva avuto un suo poeta né un suo reporter, perché per tutti era stato troppo difficile e sorprendente il sopravvivere all’arida tragedia di quegli anni per poterla subito fissare e prolungare in una memoria, in un diario. – Nello Ajello
Di quei quattro giorni emblematici – di cui si ricordano centocinquantadue combattenti caduti, centoquaranta caduti civili, centosessantadue feriti e numerosi ignoti morti in battaglia – negli anni si è detto tanto o, forse, troppo poco. Per alcuni si è trattato di falso storico, per altri dell’esasperazione di una rivolta popolare organizzata probabilmente da appena duecento insorti, per pochi di uno scatto d’ira della popolazione certamente non mossa da sentimenti antifascisti. Come di molti eventi riguardanti la città di Napoli o, peggio, la Resistenza, i tentativi di mistificazione o di revisionismo sono stati molteplici. Oggi, poi, che i venti ritornano a soffiare verso destra, cancellare la memoria di episodi che hanno visto la cittadinanza e il Sud tutto ribellarsi sembra diventata una priorità. Con i superstiti di quelle battaglie che sono sempre meno, le storie che da bambini, a volte, abbiamo avuto noia di ascoltare acquisiscono un valore di gran lunga superiore. Tenere viva la testimonianza di quei nonni che per molti, come me, non ci sono più è un modo per sentirli accanto ma, soprattutto, di non lasciare che il sacrificio di coloro che all’epoca erano solo ragazzini, scugnizzi, venga strumentalizzato e offeso.
Le bombe che, numerose, sono piovute dal cielo napoletano, rendendo il capoluogo campano la città più colpita d’Italia, quella doppia occupazione, l’illusione di una libertà trasformatasi ben presto in altra violenza, in altra fame, in mercato nero, in prostituzione, ancora oggi risuonano forte tra le strade dell’antica Neapolis che, come una donna tradita, sotto il velo di trucco nasconde la ferita ma non dimentica. I segni della guerra le hanno cambiato il volto, ma non lo spirito. Qualcuno urla ancora: le Quattro Giornate! Le Quattro Giornate!. La Resistenza non è finita, facciamocela raccontare.
Davvero bello il racconto della testimonianza e della sua necessità. Ancora di più l’invito a raccontare.
Davvero bello il racconto della testimonianza e della sua necessità. Ancora di più l’invito a raccontare.
Davvero bello il racconto della testimonianza e della sua necessità. Ancora di più l’invito a raccontare.
Davvero bello il racconto della testimonianza e della sua necessità. Ancora di più l’invito a raccontare.