11 settembre 2001. New York. Un aereo si schianta contro una delle due Torri Gemelle del World Trade Center. Diciotto minuti. Un secondo aereo si schianta contro l’altra. Un disastro che si consuma, dopo quei primi istanti, di fronte agli obiettivi della CNN e della BBC. Un terzo aereo colpisce il Pentagono mentre un quarto si schianta nel Somerset della Pennsylvania. Un disastro che si consuma, fin dal secondo zero, nell’impotenza di migliaia di vittime intrappolate all’interno degli edifici colpiti e degli aerei dirottati. Crolli, polvere, ferite, dolore. Panico. C’è chi è paralizzato e chi tenta di scappare, qualcuno non è più in grado di parlare, altri urlano. Subentra la speranza, ma soprattutto la volontà di vivere. Non può finire così. Si cerca una via di fuga, qualcosa si potrà pur fare, ma soprattutto, qualcosa si dovrà pur fare. Non deve finire così. Tremano, le pareti e le persone. E la fiducia, la fiducia che tutto possa fermarsi da un momento all’altro, che i muri e i pilastri smettano di rovinare, che si apra un varco in quella stanza d’ufficio verso la strada per la salvezza. La speranza sussulta quando si prende coscienza della cosa peggiore, l’arrivo di quello che ogni cosa distrugge impietosamente, il fuoco. Le ceneri, la puzza insopportabile, il fumo che avvolge nella morsa del non ritorno. Che fare? Rassegnarsi. Insieme ai passeggeri degli aerei, vite destinate a stroncarsi irrimediabilmente. Rassegnarsi, sì, ma prima, un’ultima telefonata. Prima, l’addio. Perché non deve finire così.
Ascoltami, mi devi ascoltare molto attentamente. Sono su un aereo. È stato dirottato. Ti amo tanto. Di’ ai miei figli che li amo tanto.
Se non si può non andare, almeno si può scegliere come farlo. Un saluto, un ti voglio bene o un ti amo che restano eterni. L’atto di coraggio più grande, pronunciare ad alta voce quello che è difficile anche solo immaginare: io sto morendo. E la voce, l’ultima con cui si parla prima di riattaccare, è la ninna nanna che riecheggia fino all’istante prima di chiudere gli occhi. Quel dolce suono in contrasto con le urla e gli schianti.
Così, l’11 settembre di sedici anni fa hanno perso la vita duemilanovecentosettantaquattro persone, di cui soltanto milleseicento sono state identificate. Delle restanti si sono ritrovate soltanto le ossa. Di tutte le vittime, almeno duecento sono morte saltando dalle torri sopraffatte dal fuoco, alcune hanno tentato invece un’ultima manovra di salvezza salendo fino ai tetti degli edifici, ipotizzando erroneamente l’arrivo di elicotteri di salvataggio, ma le porte di accesso erano chiuse.
Il tragico evento, la cui memoria è ancora oggi impressa in coloro che quel giorno ricevettero la funesta notizia, ha dato origine a ipotesi di complottismo che coinvolgerebbero gli USA, scagionando così la figura di Osama Bin Laden. La sola verità di cui siamo tutti a conoscenza è che al popolo non è dato sapere ogni dettaglio delle dinamiche dietro a eventi di una portata simile. Ma c’è una cosa che nessuno potrà mai rubare a familiari, amici e fidanzati delle vittime di un atto intriso di odio e violenza, e che non è stato possibile negare a chi quel giorno ha perso tutto: le ultime parole, gli ultimi istanti condivisi con chi di più caro al mondo, impressi in un per sempre d’amore.