Se vivete in Italia c’è una frase che negli ultimi anni avete sentito a più riprese, magari persino pronunciato con scarsa convinzione: Prima gli italiani!. Ritornello incessante delle destre populiste che avanzano sempre più facilmente, con il tacito – ma non troppo – consenso di Costituzione, politica e cittadinanza, Prima gli italiani! è la principale espressione di insofferenza nei confronti degli immigrati nel nostro Paese. Guai, infatti, a parlare di razzismo: perché seppur si esulta quando un barcone carico non giunge a destinazione, i migranti si vuole solo aiutarli in casa loro.
Al diavolo i diritti umani, l’accoglienza, la solidarietà. In base a tale ragionamento, nello Stivale d’Europa tutto spetterebbe prioritariamente a chi è venuto al mondo avvolto nella giusta bandiera tricolore: dalla (mala)sanità al lavoro (in nero), passando per una casa (abusiva), la prelazione non potrebbe che essere nostra e dei nostri connazionali. Quantomeno, di quelli che restano. Dove sono, infatti, gli italiani? Stando a un’anticipazione del Dossier Statistico Immigrazione 2017 di IDOS, in collaborazione con il Centro Studi Confronti, sempre più spesso, lontani dall’Italia. No, se ci state pensando, non per colpa degli immigrati.
Secondo i dati trapelati, dalla crisi del 2008 all’ultimo triennio, purtroppo, i flussi migratori verso l’estero sono tornati ai livelli elevatissimi del dopoguerra, quando a partire alla conquista di nuovi orizzonti erano poco meno di 300.000 persone all’anno. Nel 2015, ad esempio, i trasferimenti oltralpe sono stati 102.000, nel 2016 114.000. I rientri circa 30.000 per entrambe le dozzine di mesi. Ma non basta. Contrariamente a quanto si pensi, i traffici effettivi sono nettamente superiori. Nel dossier si legge, infatti: Come emerso in alcuni studi, rispetto ai dati dello Statistisches Bundesamt tedesco e del registro previdenziale britannico (National Insurance Number), le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di 2.5 volte e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero, un livello pari ai flussi dell’immediato dopoguerra e a quelli di fine Ottocento. Peraltro, non va dimenticato che nella stessa Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero il numero dei nuovi registrati nel 2016 (225.663) è più alto rispetto ai dati Istat. Naturalmente, andrebbe effettuata una maggiorazione anche del numero degli espatriati ufficialmente nel 2008-2016, senz’altro superiore ai casi registrati (624.000). Numeri da capogiro, quelli riportati, che verranno resi ufficiali il prossimo autunno.
Le destinazioni più ambite, come prevedibile, sono la Germania e la Gran Bretagna, seguite da Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Svizzera, con le lontane Argentina, Brasile, Canada, Stati Uniti e Venezuela. Mete dove – e qui bisogna soffermarsi con maggiore attenzione – a differenza degli anni addietro, giungono giovani menti sempre più specializzate e preparate. Se nel 2002 tra gli italiani con più di venticinque anni diretti altrove il 51% aveva la licenza media, il 37.1% il diploma e l’11.9% la laurea, nel 2016 su 114.000 unità in cerca di fortuna, 39.000 sono i diplomati e 34.000 i laureati, con scarso rammarico di chi con scellerate scelte politiche – e, lo ribadiamo, l’immigrazione dall’Africa non c’entra nulla – li ha accompagnati e li accompagna ancora oggi all’aeroporto, in un quantomai strategico silenzio. Le cifre anticipate, corredate da non pochi zeri, non sono assolutamente da sottovalutare, eppure c’è un chiaro interesse nel tacerle. Si parla sempre, infatti, soprattutto con beceri scopi elettorali, di chi arriva, mai di chi se ne va.
L’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ha sottolineato che l’Italia è tornata a essere ai primi posti – su scala mondiale – come Paese d’origine degli immigrati, piazzandosi ottava nella graduatoria delle nazioni di provenienza dei nuovi espatriati, seguita da Messico, Vietnam e Afghanistan. Dato, anche questo, volontariamente bandito dalle prime pagine dei quotidiani, troppo concentrate a pubblicizzare la macchina dell’odio inarrestabilmente al lavoro.
Perché gran parte di coloro che nascono qui vada via appare ovvio e scontato. Restare in un Paese che non offre concrete opportunità e stimoli, che mortifica la dignità e offende il diritto di essere umani, invece, inizia a essere sempre più incomprensibile, quasi un atto di eroismo. A differenza di quanto si creda, chi sale su un aereo, chi dà un nuovo accento al proprio nome, chi mastica un inaspettato sapore, non lo fa mai a cuor leggero, la valigia che si porta dietro ha il doppio dei chili previsti per l’imbarco. Quasi mai lasciare è una scelta.
Non solo, dunque, non accogliamo, ma cacciamo anche. Gli stranieri quanto gli italiani, così come i sogni, le speranze e le capacità. Intanto, abbracciamo l’ignoranza e vestiamo usurate camicie nere. Forse, quando si parla di una futura desertificazione della Penisola, non è solo a un cambiamento climatico che si fa riferimento.