William Henry Fox Talbot, parallelamente a Niépce e Daguerre, condusse i suoi primi esperimenti nell’ambito della fotografia nel 1833 nella sua tenuta in Inghilterra, sensibilizzando all’azione della luce alcuni fogli di carta con sali d’argento. Il procedimento era semplice: si prendeva un foglio di carta, lo si imbeveva in un bagno di acqua con disciolto del comune sale da cucina e, una volta essiccato, lo si trattava con una soluzione contenente nitrato d’argento. La combinazione tra nitrato d’argento e cloruro di sodio dava origine al cloruro d’argento che ha la proprietà di annerire alla luce.
Il fotografo pose, poi, a contatto con la carta sensibilizzata oggetti quali pizzi, foglie e fiori ottenendo così immagini negative per annerimento diretto grazie all’azione della luce del sole. Suddetti esperimenti presero il nome di photogenic drawing (disegni fotogenici).
Questi disegni fotogenici, anche se molto rari, sono gli ultimi antenati e gli archetipi di tutte le carte d’argento stampate e usate nel diciannovesimo secolo. Il contributo di Talbot, considerato essenziale, fu quello di identificare il cloruro d’argento più adatto alla stampa fotografica e di scoprire come utilizzarlo in modo efficace. Tre furono gli ingredienti fondamentali, quindi: un foglio di carta, cloruro di sodio (sale da tavola) e nitrato d’argento.
I primi risultati ottenuti attraverso questo procedimento tesero, però, ad annerire e a svanire in quanto i sali d’argento continuarono a essere sensibili all’azione della luce. Soltanto nel 1835 il fotografo riuscì a ottenere un negativo su carta raffigurante l’interno di una stanza della sua fattoria a Lacock Abbey, grazie all’utilizzo di una piccola camera ottica da lui stesso fabbricata. Fu proprio durante queste prove che intuì che si potevano ottenere più copie positive da uno stesso negativo, dando così vita alla fotografia moderna, attraverso il procedimento negativo/positivo. Il difetto di questi disegni fotogenici, però, era l’instabilità dell’immagine.
Nel 1819, intanto, John Herschel aveva scoperto le proprietà del tiosolfato sui sali d’argento per cui, venendo in aiuto a Talbot, gli comunicò la formula chimica utile per rendere permanenti le immagini. Tale procedimento fu descritto dallo stesso Talbot alla Royal Society di Londra il 31 gennaio del 1839 e nel 1841, brevettando il procedimento che prese il nome di calotipia, in seguito anche talbotype.
A Herschel si deve a tutti gli effetti l’invenzione della parola fotografia, così come l’introduzione dei termini positivo e negativo, emulsione e istantanea (snapshot).
Nel 1851, invece, il fotografo francese Gustave Le Gray perfezionò il calotipo cerando la carta prima di sensibilizzarla. In questo modo ottenne risultati migliori. Grazie ai suoi esperimenti, infatti, scoprì che il negativo calotipo poteva essere riposto e riutilizzato in seguito e non all’istante, come invece era richiesto dal procedimento tradizionale. Le Gray chiamò questa tecnica papier ciré. All’epoca per ottenere un positivo dal negativo calotipico si ricorreva al procedimento della carta salata, ponendo a contatto il negativo con un foglio sensibilizzato. L’immagine in bianco e nero aveva una tonalità che variava dal bruno intenso al bruno rossiccio tendente al violetto. Queste diverse colorazioni erano dovute a vari fattori: innanzitutto la percentuale di nitrato d’argento, la qualità della carta e i bagni di viraggio, generalmente al cloruro d’oro, che servivano a conferire tonalità all’immagine, ma anche a stabilizzarla ulteriormente. Per ottenere delle immagini più nitide la carta, contemporaneamente alla salatura, veniva poi preparata con amido o con gelatina per impedire un eccessivo assorbimento dei prodotti chimici. Il procedimento è stato utilizzato fino al 1930 circa per ottenere positivi da negativi su vetro.