9 agosto 2017. Eravamo sulle orme di Le Corbusier, lungo la salita di Alifacovac, alla ricerca dell’omonimo cimitero quando, non trovandolo, decidemmo di chiedere la direzione giusta a un uomo incontrato durante il tragitto. Trattandosi dell’unico grande camposanto presente nelle vicinanze, ci sembrò superfluo dovergli indicare il nome preciso, eppure egli rispose chiedendoci a sua volta: Quale? Ecco, anche solo questo è probabilmente già sufficiente per restituire la dimensione e il peso che la guerra aveva assunto in quel tragico quinquennio dei primi anni Novanta del Novecento a Sarajevo.
Finalmente raggiunto, la visita al grande sepolcreto di Alifacovac ebbe inizio. Ci entrammo dentro, lo attraversammo e lo circumnavigammo per poi tornare giù, verso la Miljacka, lasciandoci alle spalle quel pezzo di città costruito in perfetta continuità con il resto del tessuto urbano. I cimiteri, a Sarajevo, non hanno cancelli né recinzioni.
Oltrepassammo, poi, il fiume in direzione di Baš?aršija passeggiando lungo il ponte dell’attentato del 1914, che non aveva lasciato rose dipinte per terra, come era accaduto invece durante gli anni dell’assedio – tra il 5 aprile 1992 e il 29 febbraio 1996 – a seguito del quale gli abitanti della capitale bosniaca avevano tradotto i colpi dei cecchini, il sangue versato a schizzi sui selciati e le strade in uno stigma interpretato in chiave floreale, dandogli appunto il nome di rosa di Sarajevo.
Oggi, di rose in città se ne trovano in grande quantità e un po’ dappertutto, come a voler nutrire di indelebile memoria gli sguardi touch screen dei turisti abituati più al Grande Fratello che alla guerra risoltasi con un tunnel scavato dall’esercito per ottocento metri, passando trasversalmente sotto la pista dell’aeroporto all’epoca presidiato dai caschi blu, allo scopo di portare viveri dentro il territorio occupato dalle truppe serbe.
A distanza di circa vent’anni, però, Sarajevo vive ancora la fase postbellica di una città pacificata, più che pacifica, ma comunque capace di conservare magicamente, e forse inevitabilmente, la spiritualità che è propria dell’Oriente con cui è stata impastata e plasmata per secoli, compreso il nostro.
Un tempo caravanserraglio per viaggiatori stanchi, la città dei giorni contemporanei è invece oggetto della macabra curiosità dei visitatori a cui si vende per provare a riaversi. Eppure, non si può non provare rispetto per questa autentica Gerusalemme liberata dei Balcani. Non si può non provare ammirazione per la dignità con cui la sua gente è tornata a rimettersi in piedi, sfidando lo sguardo del passante e assumendo una posizione eretta che potrebbe tornare a far paura.
Noi eravamo una società libera, multietnica e multiculturale. Un modello di convivenza troppo avanzato per il tipo di Europa in cui viviamo oggi: questo ci disse, qualche giorno prima del nostro arrivo, un uomo seduto sul parapetto del ponte vecchio di Mostar, sfoggiando un italiano perfetto per via degli anni trascorsi a Brescia durante la guerra. Come non condividere una tale analisi.
L’Europa in cui viviamo oggi, successiva al 1989, non vuole una società in equilibrio tra cielo e terra, vuole individui thatcherianamente slegati gli uni dagli altri, dediti ai riti che si celebrano nelle cattedrali del consumo dove un immaginario colonizzato in modo pervasivo da modelli di sviluppo incentrati più su logiche di “successo” che su quel che ancora potrebbe succedere, consente a ognuno di potersi procurare tanta libertà quanta il colonizzatore consente di potersene comprare. E se non si ha abbastanza denaro, allora ecco che si è disposti a fare un’altra guerra e poi ancora un’altra, pur di sottrarlo al proprio vicino o, peggio, al proprio fratello, al solo scopo di poter tornare ad averne a sufficienza per riuscire a soddisfare bisogni di cui non si ha necessità. È così che si passa dalla condizione di povertà a quella di miseria.
In linea di massima, quando si affrontano percorsi densi della carica emotiva sprigionata da un territorio come quello bosniaco, è piuttosto facile cedere alla retorica auto-celebrativa, connaturata ai racconti di esperienze intime vissute durante o a seguito di un viaggio, ma Sarajevo e la Bosnia in generale non sono solo un viaggio e non sono una semplice esperienza. Sono un’autentica rivoluzione dell’anima, per chi ancora ne avesse una. Per questa ragione è importante che non passi inosservato il loro fascino inspiegabilmente naturale.
È bellissimo poter testimoniare in prima persona e dunque raccontare come gli anni di guerra, per quanto ancora latente, non siano riusciti a cancellare l’inerzia della magnifica capacità di convivenza che da sempre dimostrano di possedere le genti diverse venute dall’Est. Le stesse che hanno contribuito nel corso dei secoli a coltivare quella che ancora oggi, nonostante tutto, appare come una bella pianta dalle mille radici di cui bisogna prendersi cura affinché possa tornare a essere quel seme di integrazione tra identità differenti che, qui, tra le luci, il cemento e l’asfalto della “civile” Europa è decisamente lungi dal voler germogliare.