Stanchi dei soliti like? Stanchi dei cuoricini, delle reaction e dei commenti mai troppo memorabili? Stanchi dei soliti tweet? Tranquilli, abbiamo la soluzione fatta apposta per voi! Mentre eravate in vacanza, infatti, tra una foto in sella a un unicorno e un fenicottero rosa galleggiante, qualcuno ha pensato che fosse giunto il momento di dare una svolta ai classici social network, rivoluzionando il modo di comunicare. Basta metterci la faccia, basta aggiornare il profilo, basta insultare o dichiararsi pubblicamente! Finalmente, è arrivata Sarahah, la nuova mania – o malattia? – dell’estate.
Ideata dal giovane saudita Zain al-Abidin Tawfiq, Sarahah è un’app che permette di inviare e ricevere messaggi in forma anonima. Nata in ambito lavorativo con lo scopo apprezzabile di consentire ai dipendenti di formulare lamentele e denunce per i comportamenti scorretti dei propri capi senza il timore di un prossimo licenziamento, l’applicazione ha sin da subito riscontrato un notevole successo che ha spinto il ventinovenne che l’ha realizzata a lanciarla anche su Apple Store lo scorso 13 giugno, forte dell’enorme potenziale dimostrato, poi confermato dal numero notevole di download che ne ha cambiato radicalmente la natura.
Accessibile ormai a tutti, Sarahah si è trasformata, infatti, da possibile strumento utile a una maggiore tutela del lavoratore a un vero e proprio sfogatoio per coloro che dietro all’anonimato sentono il profumo della libertà di parola e – come facilmente prevedibile – di insulto. Se non l’avete ancora scaricata, di certo, sarà capitato anche a voi, scorrendo la vostra home di Facebook, di soffermarvi a leggere gli screenshot dei messaggi che i vostri contatti si sono vantati di aver ricevuto. Bene, avrete avuto modo di scorgere come, al di là degli elogi ad alto tasso erotico e dei desideri espressi rigorosamente a sfondo sessuale – perché da perfetti animali costantemente in calore non siamo in grado di proporre altro –, molteplici siano state le offese gratuite scritte da presunti ignoti che non avevano nulla da fare se non usare un costosissimo telefono, che tra un po’ macinerà anche il caffè, per improperi e ingiurie ai quali, almeno per adesso ma forse in futuro sì, non è possibile rispondere. Ogni iscritto alla piattaforma, infatti, può condividere sui propri profili l’indirizzo di una pagina alla quale chiunque, anche non registrato, può inviargli testi più o meno brevi non firmati, quindi protetti dallo status di sconosciuto che giustifica la vigliaccheria – e non il coraggio, come qualcuno vorrebbe farci credere – di esprimere qualsiasi tipo di pensiero e giudizio, anche negativo, con lo strano effetto di suscitare vanità nel destinatario, il più delle volte vittima di qualche pesante offesa.
Dunque, se la scorsa estate rincorrevamo immaginari Pokémon, quest’anno, tanto per tutelare l’asocialità e assicurarsi che le persone smettano di avere una qualunque forma di contatto tra loro, come in un film già visto, i telefonini ci hanno messo al guinzaglio, caricato in auto e abbandonato sulla trafficata autostrada dell’idiozia.
Insomma, in un mondo che fa sempre più fatica a parlarsi, è davvero un’app che celi la nostra identità ciò di cui abbiamo bisogno? E, soprattutto, è questo il diritto alla parola che meritiamo? Forse, piuttosto che pensare a digitare cattiverie, dovremmo impiegare le mani per toglierci il nastro adesivo dalla bocca e riaccendere il cervello ormai in disuso. Eppure, in una realtà virtuale che sempre più sostituisce quella vera alla quale non siamo più in grado di adattarci, ahinoi, non è il successo di Sarahah a sorprenderci, ma la rapidità con cui il fenomeno stia contagiando tutti, anche gli insospettabili sempre pronti a smentire le poche speranze nella scarsa e rara intelligenza umana rimasta. Seppur convinti che questa sia solo l’ennesima moda destinata a entrare presto nella scatola dei ricordi da richiudere in soffitta e tralasciando l’inutilità di un’applicazione la cui funzionalità o divertimento è pari a zero – perché no, non c’è nulla di esilarante nel calunniare qualcuno (ma anche nel dichiararsi in questo modo) –, viene da chiedersi fino a che punto e con quanta velocità la nostra spersonalizzazione stia diventando normale e passivamente accettabile, tanto da giustificare una rateizzazione di diciotto e più mesi per avere sempre in tasca insulti inviati o ricevuti anonimamente di cui pavoneggiarsi – chiaramente su altri social – con il rischio, nel frattempo, di scatenare un uragano capace di distruggere i già molto fragili, perché costantemente esposti alle intemperie emotive dei tempi moderni, animi di chi a questo gioco malato, fatto di luci e vetrine, non sa ribellarsi né dire di no, tantomeno adeguarsi.
La cronaca ci racconta fin troppo spesso le storie di coloro che non hanno la forza di sopportare o chiedere aiuto, di coloro che soccombono e agiscono in modo estremo. Ci racconta di vite spezzate e adolescenze rese eterne, anche per mano di chi ha noto sia il volto che il nome. Quindi, il pericolo che un sistema come Sarahah possa mietere nuove vittime, confortato dall’oscurità dell’anonimato, non è tanto remoto e da sottovalutare.
Se piuttosto che sorridere e pensare già al prossimo tormentone, ci soffermassimo su un’analisi seria che le reazioni a questi nuovi finti stimoli ci offrono ogni volta, allora, potremmo accorgerci di quanto patologiche esse siano diventate. Il bene o male, purché se ne parli di wildiana memoria, alla base delle attuali piattaforme su cui trascorriamo buona parte delle nostre giornate, infatti, ha accresciuto un narcisismo autolesionista del quale non possiamo più fare a meno. Non importa cosa vogliano dirci, non importa chi sia a digitare quelle poche frasi, non importa se saranno piacevoli o denigratorie, fondamentale è che quel messaggio arrivi, e dopo di esso un altro, e un altro ancora. Che qualcuno, in quel momento, stia pensando a noi è la priorità, in che termini non conta, conta solo lo screen che se ne può fare e il riscontro di pubblico che si deve ottenere per mettere a tacere il ritratto bisognoso di notorietà, chiuso in un angolo giù in cantina.
Ed eccoci, dunque, incapaci, sotto il sole cocente di agosto, di chiedere a un altro, in solitudine come noi, dove porta l’autostrada dell’idiozia o se sa qual è la prima uscita più vicina. I telefonini, intanto, sono risaliti in macchina e hanno rimesso in moto. I cervelli, invece, sono in in fuga già da un bel po’, lontani abbastanza da non averne più nemmeno il vago ricordo.