L’eterno errare, la forza vitale: è questo il concetto egiziano del ka. Un’idea che porta con sé la memoria delle pericolose e lunghe migrazioni paleolitiche. La sua rappresentazione geroglifica, composta da due braccia alzate, indica l’energia sovrannaturale che viene trasmessa dalla divinità come infusione diretta dall’alto in una sorta di abbraccio protettivo. Un simbolo che, allo stesso tempo, è collegato al gesto dell’adorazione del sole, risalente alla preistoria di molte civiltà, a partire da quella africana sino ad arrivare a quella scandinava.
Esiste un ponte che unisce tra di loro le concezioni religiose dei tempi primordiali là dove meno lo si suppone. Questo è il concetto di ka, che venne ulteriormente elaborato dai teologi di Eliopoli e incorporato nel sistema religioso. […] Le origini dell’architettura in pietra sono inseparabilmente connesse al concetto del ka, e fu proprio il ka del fondatore della Terza dinastia, re Zoser, a fare origine all’architettura in pietra […] l’unico materiale eterno che poteva racchiudere il ka. – Sigfried Giedon, The eternal present, 1964.
Come scrive Francesco Careri in Walkscapes, la civiltà egiziana è particolarmente legata alle origini nomadi primitive e conserva nel suo apparato religioso e simbolico una continuità con le culture paleolitiche. Tale civiltà ha trasformato il menhir e il percorso, gli archetipi architettonici delle età precedenti, in architetture vere e proprie: il primo come volume, il secondo, invece, come spazio interno. Lo storico dell’architettura Sigfried Giedon ha affermato che la nascita del primo volume nello spazio veniva rappresentato nella cultura egiziana come il mito del benben: la pietra che per prima emerse dal caos, la pietrificazione del primo raggio solare collegato con la simbologia delle piramidi, degli obelischi e del menhir.
Al ka è collegato il concetto dello spazio interno, si tratta di uno spirito divino che simboleggia il movimento, l’energia e la vita. Il segno del benben, a differenza del geroglifico del ka, è un monolite, dalla forma conica e con punta luminosa. In Sardegna, lungo le rotte della transumanza, queste due rappresentazioni sembrano compresenti; sulla cima è scolpito un segno che rimanda a un raggio di sole, mentre al centro è presente una figura simile al ka.
Quest’ultimo si tratta probabilmente di uno dei simboli più antichi dell’umanità, ed è presente in numerosissime civiltà distanti tra loro. Potrebbe persino far supporre che fosse perfettamente comprensibile dalle popolazioni che si spostavano a piedi attraversando i continenti. Giedon, inoltre, ha sostenuto che l’organizzazione dei grandi templi del Nuovo Regno esprimeva l’idea di un eterno errare e che proprio le prime architetture in pietra erano nate grazie all’idea del ka. Francesco Careri scrive che un chiaro esempio è la spettacolare costruzione egiziana di Karnak, un passaggio all’interno di enormi filati di colonne parallele, che ricorda la spazialità ritmata di Carnac, il più grande allineamento di menhir esistente al mondo, forse usato per danze sacre e rituali.
Il concetto di passaggio persiste: nei templi egiziani ogni parte del complesso veniva concepita come luogo di transito. Nei grandi ipostili, la “selva” di colonne serviva come passaggio per il re e per la processione che portava il dio da un santuario all’altro. Spazi da percorrere che rendevano sacro e simbolico un eterno errare.
Careri spiega che per migliaia di anni, l’attraversare lo spazio ha rappresentato un mezzo estetico grazie al quale è stato possibile abitare il mondo, ancor prima che la costruzione fisica di un luogo simbolico fosse possibile. Il concetto di erranza non può mai rappresentare qualcosa di isolato, in quanto a questa azione sono spesso state associate la religione, la musica, la danza e il racconto di interi popoli. Si tratta proprio di un racconto che, con il passare dei secoli è diventato un genere letterario vero e proprio legato al viaggio, dove quest’ultimo viene minuziosamente descritto rappresentandone lo spazio. Il camminare, quale pratica estetica, oggi non è più qualcosa legata esclusivamente alle ritualità religiose, ma si è evoluta, ha acquisito una forma tutta nuova, ovvero quella di un’arte del tutto autonoma.