Mi ricordo una missione un po’ speciale
Genova 2001, vertice mondiale,
sono un poliziotto del reparto celere
pronto alla guerra,
ma più che una battaglia in strada sembra un Carnevale.
È un G8 che non vuole finire quello di Genova 2001, tornato, insistente, a riempire le prime pagine dei principali quotidiani italiani. I tragici giorni di luglio che sedici anni fa macchiarono indelebilmente la storia del nostro Paese, infatti, hanno ripreso a far discutere di sé in modo violento e malsano, soprattutto a causa degli ultimi sviluppi legislativi a essi inerenti. Dopo la beffa dell’introduzione del, quasi inutile nella versione approvata solo meno di un mese fa, reato di tortura – quello per il quale, a più riprese, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia, proprio in merito alla mattanza genovese –, è notizia recente il reinserimento tra le fila delle forze dell’ordine di alcuni dirigenti e agenti di polizia – quelli non ancora andati in pensione o non ancora reintrodotti – condannati solo nel 2012, come pena accessoria, per l’unico reato sopravvissuto alla prescrizione: il falso aggravato. L’interdizione dai pubblici uffici, infatti, come previsto, è scaduta e per lo Stato italiano, trascorsi i cinque anni, tutto può tornare come prima. Peccato che per chi le botte le ha prese, non possa succedere lo stesso. La macelleria messicana, come la definì Michelangelo Fournier, all’epoca vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, ancora oggi non si può dimenticare.
Arrivato al primo piano dell’istituto ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana. […] Sono rimasto terrorizzato e basito quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: “Basta, basta!” e cacciai via i poliziotti che picchiavano. Intorno alla ragazza per terra c’erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze.
I poliziotti coinvolti – che non hanno mai rischiato il carcere grazie all’indulto – dichiararono che nella scuola degli orrori erano presenti alcune molotov, sottoscrivendo, quindi, dei falsi verbali costruiti ad hoc. In realtà, quelle che si trasformarono nelle armi trovate sul posto, che avrebbero dovuto incastrare i Black Bloc e giustificare l’inaudita aggressione, erano state introdotte nell’istituto, per mano del vicequestore Pietro Troiani, dagli stessi uomini in divisa, che le avevano rinvenute il pomeriggio precedente in un’aiuola di corso Italia. Inoltre, a rafforzare la tesi della necessità di un intervento all’interno della Diaz – presumibile covo di violenti – Massimo Nucera, il caposquadra attualmente già reintegrato, affermò di aver ricevuto una coltellata. Una testimonianza ovviamente fasulla per la quale, in aggiunta alle lesioni, fu inizialmente condannato a tre anni e cinque mesi – reati entrambi prescritti – per poi subire dal Consiglio provinciale di disciplina della polizia una sospensione dello stipendio di un mese, ridotta in seguito a quarantasette euro.
Sono duecentomila e vogliono cambiare il mondo
e pensano che per cambiare basti un girotondo.
Io non so nemmeno chi ha ragione o chi ha torto,
ma vuoi vedere che a ‘sto giro qui ci scappa il morto?
Oltre ai due agenti sopracitati, pronti a tornare in servizio sarebbero anche Salvatore Gava – che ai tempi dirigeva la squadra mobile e oggi lavora come manager per Unicredit –, Fabio Ciccimarra – condannato in appello per sequestro di persona per gli episodi della caserma Rainero del G7 di Napoli –, Gilberto Caldarrozzi – ex capo del Servizio centrale operativo, poi chiamato da Gianni De Gennaro, allora capo della polizia, come consulente della sicurezza di Finmeccanica, e attualmente presidente di Leonardo-Finmeccanica che si occupa di difesa e sicurezza –, Filippo Ferri – figlio dell’ex ministro e fratello del sottosegretario alla giustizia, capo della squadra mobile di Firenze, oggi responsabile della sicurezza del Milan (guarda caso, fino all’altro ieri squadra di Silvio Berlusconi, premier nel 2001) – e, infine, Spartaco Mortola – capo della Digos di Genova che scortò i reparti speciali alla scuola Diaz per poi restare all’esterno a chiacchierare. Occhio che non vedeva, cuore che non doleva?
Genova brucia,
sono autorizzato dallo Stato,
eseguire gli ordini non è mica reato e quindi
Genova brucia,
non faccio distinzioni, donne, vecchi o bambini,
potrebbe essere tuo figlio Carlo Giuliani,
Genova brucia.
A distanza di sedici anni, dunque, con ferite mai rimarginate, ma acuite nel dolore e nel ricordo dalle molteplici manifestazioni di violenza vigliacche e fasciste susseguitesi nel tempo fino ai giorni nostri da parte delle forze dell’ordine, il Bel Paese e la sua più che discutibile legge stanno tentando, ancora una volta, con un vile colpo di spugna, di cancellare il massacro ingiustificabile della Diaz e di Bolzaneto, la caserma-lager dove i diritti umani morirono per tre lunghi e inimmaginabili giorni, l’anticamera dell’inferno della democratica Italia di cui, però, nessuno parla mai.
Qui non serve a niente chiedere aiuto,
piangi quanto vuoi non ti risponderà nessuno.
Non c’è Manu Chao e nemmeno il tuo avvocato,
canta la mia filastrocca, siamo al Bolzaneto.
Eppure, ci sono episodi che non si dimenticano, che creano precedenti e acuiscono le distanze, che generano timori e idiosincrasie, che alimentano pregiudizi e sfiducia, che marcano, con un confine netto, le differenze tra chi indossa una divisa e chi, invece, l’ideale di una bandiera, quasi sempre la stessa, quasi sempre violentata dalla storia e dal potere. I gravi reati e le finte sentenze di cui i caschi blu si sono resi colpevoli senza, tuttavia, mai pagare, il rosso indelebile che ha sporcato la – oggi non più troppo – partigiana Genova, piazza Alimonda, una vile retromarcia e un feroce abuso di autorità hanno, per la loro nera brutalità, cambiato un Paese che a quel tempo si è fermato, che da allora non ha saputo più rinascere, martoriato nella speranza di un futuro che non fosse il presente a cui ci hanno costretto, feriti a sangue, in un luogo sacro come la scuola o tra le grigie pareti di una caserma, ipotetica casa della legge, che ci ha tradito e umiliato, stabilendo che non siamo cittadini e non siamo uomini, tantomeno bestie. Siamo i veri servi dello Stato e, da bravi schiavi, dobbiamo subire in silenzio, senza protestare. Nessuno scenderà in piazza con noi. Non lo ha fatto ieri e non lo farà domani, quando vorremo manifestare i nostri diritti o chiedere protezione. E non importa che quel comportamento odioso e ingiustificabile abbia contribuito a gettare discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero, non ha mai interessato realmente. Così come non conta che Franco Gabrielli, l’attuale capo della polizia, parli di tortura perché se non oggi, tra qualche giorno, la sua divisa tornerà – complice il suo assenso e quello dei sottoposti – uguale a quella di chi l’ha usurpata, fiero di un manganello che, impazzito, ha ferito con rabbia.
L’assoluta gravità sta nel fatto che le violenze, generalizzate in tutti gli ambienti della scuola, si sono scatenate contro persone all’evidenza inermi, alcune dormienti, altre già in atteggiamento di sottomissione con le mani alzate e, spesso, con la loro posizione seduta in manifesta attesa di disposizioni. […] Si è trattato di violenza non giustificata e punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione e alla sofferenza fisica e mentale delle vittime. […] La mancata indicazione, per via gerarchica, di ordine cui attenersi si è tramutata in una sorta di carta bianca, assicurata preventivamente e successivamente all’operazione. Gli agenti si erano scagliati sui presenti, sia che dormissero, sia che stessero immobili con le mani alzate, colpendo tutti con i manganelli (detti ‘tonfa’) e con calci e pugni, sordi alle invocazioni di ‘non violenza’ provenienti dalle vittime, alcune con i documenti in mano, pure insultate al grido di ‘bastardi’. – Corte di Cassazione
Dopo sedici anni non siamo più scandalizzati, nemmeno indignati. In fondo, abbiamo imparato presto che è l’ingiustizia a farla da padrone in questo Paese. Però, siamo stanchi. Che nessuno dica più che l’Italia è democrazia, che la libertà ci è concessa, che le forze dell’ordine non sono tutelate. Picchiateci pure, ma non prendeteci in giro. Quello proprio non si può sopportare.
Ne è morto solo uno ma potevano essere cento,
i mandanti del massacro sono ancora in Parlamento.