Non ti senti fuori dal mondo?, era il mio primo anno di Università quando una mia collega mi fece questa domanda, stupita – e scandalizzata – dal mio rifiuto nei confronti dei social network. All’epoca non avevo un account Facebook o Twitter, né la benché minima intenzione di crearne uno. L’idea di diventare come le mie amiche che sentivano la necessità di condividere ogni cosa mi spaventava. Più passavano i giorni, però, più mi accorgevo che, in effetti, almeno in ambito accademico, fuori dal mondo ci ero davvero. Le informazioni, il materiale didattico, lo scambio di appunti tra i corsisti passavano tutti da lì, nelle chat e nei gruppi nei quali, scegliendo di non avere un profilo personale online, io non avevo possibilità di accesso. Decisi, quindi, più o meno per cause di forza maggiore, di iscrivermi alla piattaforma di Mark Zuckerberg. Da allora, è passato un bel po’ di tempo e, per fortuna, non sono diventata come quelle amiche, ma la paura che di colpo possa succedere non è mai andata via.
A tal proposito, solo qualche mese fa la Royal Society for Public Health ha reso nota l’ennesima indagine, svolta su un gruppo di 1479 ragazzi del Regno Unito, tutti tra i 14 e i 24 anni, che denuncia quanto i social siano dannosi. Lo studio ha rivelato, infatti, non solo la dipendenza che questi creerebbero ma, dato ancora più allarmante, la nocività dei suddetti per ciò che concerne la salute mentale, in particolare nell’esposizione maggiore a possibili stati di ansia e depressione.
In un mondo che ormai si misura in like, ahinoi, non è difficile, purtroppo, immaginare gli effetti disastrosi che questi nuovi strumenti di (a)socializzazione possono riscuotere sulla maggior parte delle persone che ne usufruiscono. Da quando comunicazione e condivisione sono stati affidati quasi esclusivamente alle community varie, infatti, è diventato sempre più difficile per gli utenti farne a meno: restare connessi è una priorità. Staccare il cellulare per qualche ora – nei casi estremi per qualche minuto –, lasciare il computer spento, non immortalare una pietanza, un tramonto, un panorama mozzafiato o persino la propria immagine per molti è inammissibile, è una forma di isolamento, è la paura di perdersi qualcosa, è la FOMO, fear of missing out, che genera panico, è la sensazione di restare esclusi. Difficile capire realmente da cosa. Sebbene, come affermato da tanti, i social network abbiano ampliato quelle che sono le funzioni che l’uomo esercita da sempre – quali lo scambio di opinioni, di idee, di esperienze, e così via –, ovviamente in forme diverse, è venuto a mancare il vero contatto tra le persone, il confronto dal vivo, la voglia di telefonarsi per raccontare ma, soprattutto, di incontrarsi anche solo per chiedersi come stai?. È venuta a mancare la complicità degli sguardi, l’intonazione della voce, un’espressione del viso. L’empatia è scomparsa. L’essere amici su Facebook o seguire – termine a dir poco terrificante – qualcuno su altre piattaforme ci dà l’illusione di conoscerci tutti. In realtà, nonostante la messa in mostra di alcuni momenti della nostra giornata o la diffusione di un nostro pensiero racchiuso in un post, dell’altro non si sa nulla.
Patricia Wallace – insegnante della Graduate School del Maryland University College che si occupa di psicologia delle relazioni e dell’apprendimento, anche autrice di La psicologia di internet, pubblicato in Italia lo scorso marzo – in seguito alla consultazione di numerose ricerche al fine della stesura del suo testo, ha affermato, infatti, che, complice l’incertezza sul pubblico che può leggere i nostri scritti o sfogliare i nostri album, sul web le persone tendono a costruire una versione potenziata di se stesse che valorizza le caratteristiche positive e smorza quelle negative, a volte creando veri e propri personaggi nuovi rispetto al reale, anche solo per provare qualcosa di diverso. Insomma, un po’ come tutte le foto che si postano, quasi mai rispondenti al vero e frutto di un accurato lavoro di modifica e Photoshop o simili. Alla luce di ciò, dunque, come si può anche solo avere il sospetto di conoscersi? La solitudine, pur trascorrendo online gran parte della propria giornata, è inevitabile.
Come se non bastasse, però, lo studio britannico a cui si faceva riferimento poc’anzi, sostenuto dallo Young Health Movement, ha sottolineato quanto i social generino in noi depressione e irrequietezza, stilando anche una classifica dei più deleteri per gli utenti. L’indagine vedrebbe al primo posto Instagram, la piattaforma ideata da Kevin Systrom – concentrata sulla diffusione di foto e video, con l’aggiunta negli ultimi mesi delle cosiddette Storie – che da anni è sul banco degli imputati per gli effetti disturbanti che hanno i suoi contenuti. L’ostentazione costante tipica della sua natura, infatti, aumenterebbe il senso di inadeguatezza negli iscritti, soprattutto quelli più giovani e facilmente influenzabili, costretti continuamente a confrontare la propria vita con quella, apparentemente perfetta, degli altri. In Giappone – ma ormai anche in Europa – ad esempio, per combattere questo tipo di disagio sono nati persino dei siti dove prendere “in affitto” i fake friends, sconosciuti che, a pagamento, si fingono amici per scattare selfie di gruppo o accompagnare chi si sente solo – e non vuole sfigurare – alle feste più svariate. Tutto semplicemente per apparire e avere istantanee da pubblicare che possano competere con i cocktail, la movida, le gambe – ritoccate – perfette dei vari influencer, fashion blogger e celebrità di ogni tipo. Nella classifica, nel rispettivo ordine, seguono Twitter, Facebook e Snapchat. In modo particolare per ciò che concerne il sito gestito da Zuckerberg, un’ulteriore analisi a cura dell’Università del Galles del Sud su 340 utenti ha dimostrato che i mi piace anziché accrescere la nostra autostima e trasmettere una piacevole sensazione di benessere, ci catapulterebbero in una spirale senza uscita. Le reazioni altrui, infatti, ci metterebbero sotto pressione, producendo ulteriore negatività.
Insomma, ancora una volta, i dati ci ricordano quanto sia forte e assolutamente da non sottovalutare il pericolo di una manipolazione – voluta e non – attraverso degli apparentemente innocui sistemi di comunicazione. Socializzare per l’uomo è vita, eppure è nell’alienazione più totale che si sta nascondendo.