Il 3 ottobre del 1996 l’Accademia di Stoccolma annunciò che il Premio Nobel per la Letteratura era stato conferito alla poetessa polacca Wislawa Szymborska. La scrittrice, in quei giorni, si trovava in un rifugio di montagna, in una stanza in affitto all’interno della quale aveva deciso di chiudersi per isolarsi dal mondo e scrivere le sue ultime poesie.
Durante il discorso tenuto in occasione della cerimonia di premiazione – avvenuta il 7 dicembre dello stesso anno – l’autrice si soffermò su vari punti, analizzando soprattutto il rapporto che intercorre tra la figura del poeta e il mondo esterno il quale, inevitabilmente, si scontra con quello che egli si è creato attraverso la sua immaginazione.
Il poeta odierno è scettico e diffidente anche – e forse soprattutto – nei confronti di se stesso. Malvolentieri dichiara in pubblico di essere poeta – quasi se ne vergognasse un po’. Ma nella nostra epoca chiassosa è molto più facile ammettere i propri difetti, se si presentano bene, e molto più difficile le proprie qualità, perché sono più nascoste, e noi stessi non ne siamo convinti fino in fondo…
Fu questa una delle prime riflessioni contenute nel suo discorso. Il poeta, oggi, tende a camuffare la propria professione, soprattutto se si tratta di un artista emergente. Ma per quale motivo chi si trova dinanzi a lui non riesce a prendere sul serio il mestiere della scrittura in versi? Sembra che tutto ciò sia riconducibile al mondo in cui, con brutalità, siamo stati catapultati. Questo essere catapultati nel mondo significa, ovviamente, entrarvi in contatto e – di conseguenza – rapportarsi a una società che non sempre ci accoglie con tutti gli onori.
Suppongo che anche un filosofo susciti un eguale imbarazzo. Egli si trova tuttavia in una situazione migliore, perché per lo più ha la possibilità di abbellire il proprio mestiere con un qualche titolo scientifico, Professore di filosofia – suona molto più serio.
Ma non ci sono professori di poesia. Se così fosse, vorrebbe dire che si tratta d’una occupazione che richiede studi specialistici, esami sostenuti con regolarità, elaborati teorici arricchiti di bibliografia e rimandi, e infine diplomi ricevuti con solennità. E questo a sua volta significherebbe che per diventare poeta non bastano fogli di carta, sia pure riempiti di versi più eccelsi – ma che è necessario, e in primo luogo, un qualche certificato con un timbro. Ricordiamoci che proprio su questa base venne condannato al confino il poeta russo, poi premio Nobel, Iosif Brodskij. Fu ritenuto un “parassita” perché non aveva un certificato ufficiale che lo autorizzasse ad essere poeta…
Certificato, autorizzazione, timbro… Cosa c’entrano questi termini con la poesia? Può un artista di tale calibro essere considerato un parassita – dunque un organismo che vive a spese di un altro – dal mondo in cui ìvive? Una simile ipotesi è senza dubbio imbarazzante. Non esistono professori di poesia perché ogni poeta racconta quel mondo interiore a cui si accennava prima che varia da individuo a individuo.
Durante la presentazione del libro Lezioni di Meraviglia, di Maura Gancitano e Andrea Colamedici, i due autori hanno collegato la figura del poeta a colui che riesce ancora a meravigliarsi. Quest’ultimo osserverà un albero, un fiore, un cielo stellato o un palazzo in centro e si meraviglierà dinanzi a tale scoperta. Ma, soprattutto, racconterà ciò che i suoi occhi e soltanto i suoi occhi hanno visto, perché egli guarda al mondo in modo diverso. Grazie a questo avrà la capacità di trasferire quelle sensazioni personali su carta. Il poeta, in un certo senso, continua a vivere nella stessa condizione in cui viveva nella seconda metà dell’Ottocento: relegato nella sua personale realtà, rigettato da una società che non sempre lo comprende, confinato in una posizione di poca credibilità.
L’ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono pedagoghi siffatti, ci sono giardinieri siffatti e ancora un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro può costituire un’incessante avventura, se solo sanno scorgere in esso sfide sempre nuove. Malgrado le difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi. L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so”.
Con queste poche frasi la celebre autrice passò, poi, a esaminare il concetto di ispirazione, che si è soliti ricollegare al poeta o, più in generale, all’artista: chi produce arte ha bisogno di essere ispirato da qualcosa. È vero, ma non è soltanto chi appartiene a quel mondo ad averne bisogno. Tutti gli esseri umani, in modo differente, avvertono la necessità di trovare un punto di riferimento che, poi, sarà una spinta per la realizzazione di qualcosa. Come disse Wislawa Szymborska, questa spinta deriva da un dubbio, da un continuo non so che motiva l’individuo a spingersi oltre. Allora ogni poesia, ogni dipinto, ogni romanzo, ogni invenzione, ogni gesto umano sarà testimone dello sforzo immane di rispondere a quel dubbio. Il discorso si concluse con una frase semplice e diretta:
Sembra che i poeti avranno sempre il loro bel daffare.
Queste parole acquisiscono subito senso se si pensa a tutto ciò che si può definire stupefacente. Ma la parola stupefacente, come affermò anche la poetessa, è un epiteto che nasconde una trappola. Restiamo stupefatti dinanzi a qualcosa che non appartiene al campo dell’ovvio, ma esiste davvero un campo dell’ovvio? Ognuno, in fin dei conti, si stupisce in modo diverso da qualsiasi altro soggetto e il nostro sbalordimento non dipende da un confronto. In poesia, inoltre, nulla è davvero ordinario. Ciò che nella vita quotidiana può sembrare scontato – come, ad esempio, una nuvola – in versi acquisterà una forma diversa ogni volta. Ecco perché, nonostante quanto si pensi, il poeta avrà sempre il suo bel daffare, raccontando il suo mondo e quello in cui viviamo in maniera sempre nuova.
Metti in conto di fare fiasco, direbbe questo Wislawa Szymborska a un aspirante poeta. È un campo rischioso, non c’è niente da fare. Ma i rischi vanno sempre assunti, così come le responsabilità.