La lingua italiana porta con sé un bagaglio storico-culturale che rivela l’evoluzione di un popolo nel corso di secoli di sottomissioni e battaglie per l’indipendenza e l’unità nazionali. Si è soliti guardare al nostro idioma come a un mero frutto del latino, lingua che ha dato origine anche a molte altre, ma, da ancor prima della sua nascita fino a oggi, l’italiano è stato arricchito di termini provenienti da paesi al di là dei confini del nostro.
Il latino stesso, infatti, presentava già ai tempi parole importate dalle lingue germaniche dei Goti, dei Longobardi e dei Franchi, invasori contro i quali i nostri antenati combatterono dure guerre tra il V e l’VIII secolo. Un esempio significativo risiede, non a caso, nella parola latina bellum che non è stata perpetuata nelle lingue neolatine, ma sostituita dal corrispondente francone werra, per tramutarsi, in italiano, in guerra (con versioni molto simili nelle altre lingue romanze). Un tale passaggio da bellum a guerra non fu semplicemente di natura linguistica, ma anche pratica. Corrispose, infatti, alla fine delle vetuste spedizioni romane, ordinate e con schemi ben precisi, con l’avvento degli invasori germanici e delle loro battaglie disorganizzate, dettate dall’impeto e dalla veemenza. Nella lingua italiana, però, il termine latino ha dato origine ad altre parole, come bellicoso, belligerante e bellico, semanticamente legate al concetto di guerra. In origine ossimori, se si considerano le diverse ideologie marziali a cui facevano riferimento, le due forme oggi conservate nel patrimonio linguistico nostrano sono i resti sempiterni di uno scontro secolare.
Tra le altre parole di origine germanica ve ne sono due affini, il sostantivo truppa e l’avverbio troppo, entrambi derivanti dal germanico throp, con il significato di ammasso, moltitudine. In effetti, se ci pensate, una certa affinità di significato fra i due termini c’è eccome.
Cronologicamente, tra l’invasione ostrogota e quella franca si colloca la conquista del sud della penisola da parte dell’Impero Romano d’Oriente, la cui lingua ufficiale era il greco. Da essa derivano alcuni nomi di città, come Napoli, da Neapolis, città nuova, che conserva una traccia della parola greca polis (città). Palermo, invece, porto della Sicilia, deriva da Panormos, composto da pan (tutto) e ormos (porto). In merito ai nomi riservati ai centri urbani, la linguista francese Hanriette Walter nel suo libro Le avventure delle lingue in Occidente rivela ai lettori un curioso particolare sulla Lombardia e la Romagna che vi citiamo: I nomi di queste due province italiane, per lungo tempo nemiche, sembrano a prima vista del tutto normali. Eppure la loro pronuncia presenta una contraddizione: Lombardia si pronuncia alla greca, con l’accento sulla i, e Romagna alla latina con l’accento sulla prima a. Ora, durante tutto il Medioevo era il greco bizantino che predominava in Romagna poiché la Chiesa Romana d’Oriente si era stabilita nell’esarcato di Ravenna. Nel pronunciare oggi il nome di Lombardia, accentando la i alla greca, i lombardi perpetuano così, senza rendersene conto, la pronuncia dei loro nemici di una volta.
A partire dal X secolo, dal latino inizia a formarsi e distinguersi l’italiano, nel pieno della dominazione araba in Sicilia, in cui raggiunge la vetta lo sviluppo di saperi come l’astronomia, la storia, la matematica e la medicina. L’influsso linguistico dell’epoca si conserva in parole come albicocca (dall’arabo al barquq), zucchero (dall’arabo sukkar) e algebra (dall’arabo al-gabr, che significa unione).
Com’è risaputo, i numeri arabi sono stati importati in Italia così come nel resto d’Europa e, precisamente, il merito va al matematico Leonardo Fibonacci con il suo Liber Abaci. Fu proprio lui a creare la parola italiana zero a partire dall’aggettivo arabo sifr, che significa vuoto. Da sifr, infatti, non solo nacque la parola araba che sta per cifra, ma anche il suo corrispondente latinizzato zephyrum, che in italiano mutò fino a divenire zero.
I prestiti della nostra lingua sono di un numero incommensurabile. Parole dalle origini più disparate sono state accolte e spesso, come nei casi presentati, adattate all’idioma ospitante occultando, gradualmente e nel corso degli anni, la propria provenienza. A differenza di quelli non tradotti, come le numerose parole francesi e inglesi da noi adottate – con grande orgoglio e apertura culturale verso realtà che vogliamo a tutti i costi sentire vicine – senza apportarne alcun cambio morfologico o fonologico (baguette, dessert, savoir-faire, fan, drink, weekend), i prestiti adattati non richiamano mai alla nostra mente quel passato in cui ci siamo mescolati a modelli di vita ben diversi che hanno contribuito a renderci ciò che siamo oggi e che, in molti casi, ci hanno migliorato. Basti considerare che gli Arabi, con conoscenze avanguardistiche e all’epoca avanti anni luce rispetto alle nostre, hanno fatto di città come Palermo e Napoli dei veri e propri centri di propulsione culturale, ne hanno rivoluzionato i sistemi dell’agricoltura e dell’irrigazione, hanno aperto l’Italia a nuove frontiere scientifiche e matematiche e hanno arricchito la letteratura, la filosofia, gli studi filologici e molti altri in maniera determinante.
Quando contiamo, quando utilizziamo parole come azimut, zenit, algoritmo, quando semplicemente nominiamo la nostra città, ricordiamo inconsciamente un tempo caratterizzato da integrazioni difficili e, in certi casi, sanguinose da cui la nostra civiltà ha ricavato preziosi frutti di cui tutt’oggi facciamo tesoro.
Il nostro vocabolario ci dice chi siamo, chi siamo stati, e con chi abbiamo convissuto e lottato. I popoli si intrecciano per poi separarsi, e così la storia cambia, mentre la lingua la porta con sé.