L’escalation del terrore a opera dell’ISIS, che in particolare negli ultimi tre anni ha interessato diversi paesi di tutti i continenti, ha generato centinaia di vittime percepite emotivamente dall’opinione pubblica quanto più vicini sono stati gli eventi, come accaduto in Francia e nei giorni scorsi a Londra.
Da uno studio pubblicato dal quotidiano francese Le Monde, Egitto, Nigeria, Francia, Yemen, Turchia, Libia, Tunisia, Arabia Saudita, Ciad, Camerun, Libano e Pakistan sono le nazioni con il maggiore numero di vittime, per un totale di circa milleseicento dal giugno 2014 al 2015.
Ma quanto accade in Europa per mano di singoli, seppur legati ideologicamente alla stato islamico, in prevalenza nati e cresciuti nelle stesse comunità oggetto degli attentati, meriterebbe un approfondimento più attento, una valutazione che non può e non deve essere sottovalutata da quanti hanno responsabilità della cosa pubblica.
Affrontare questi temi come un qualsiasi fenomeno di ordine pubblico limitandolo alla sola repressione è condivisibile come azione nell’immediato, ma non è esaustivo del problema che ha radici molto più profonde da ricercare in una mancata ed equilibrata integrazione, in una condizione di subalternità, in un razzismo e in un’intolleranza viscerale che sempre più alimenta i movimenti che hanno fatto e fanno la loro fortuna sui quei principi che hanno ispirato nel secolo scorso uno dei periodi più bui della storia del nostro continente.
Una miscela esplosiva e pericolosa di cui i leader dei movimenti xenofobi e razzisti conoscono bene gli aspetti produttivi finalizzati al loro successo, complice l’atteggiamento omertoso di quanti pur dichiarandosi pubblicamente contrari – non sono razzista ma… – contribuiscono ad alimentare un clima di odio dove le differenze non rappresentano un valore ma una minaccia al proprio ego, con il sempre più diffuso atteggiamento di questi ultimi fondato prevalentemente sulla difesa del proprio orticello, del proprio ambito di vita, dell’intolleranza anche visiva giustificata da ragioni di “decoro”.
Sono gli stessi che fanno della commozione e della partecipazione al dolore per le vittime di un attentato un fatto prettamente geografico che non va oltre i confini europei fregandosene, ad esempio, dei recenti raid americani con gas tossici in Khan Sheikhun, città nella provincia nordoccidentale di Idlib con settantadue morti, tra i quali venti bambini, o delle centosei vittime, di cui quarantadue bambini, nei raid in Siria e Iraq.
Ed è proprio questa miscela esplosiva, fatta di indifferenza, odio, intolleranza, rifiuto delle diversità, che può avere effetti sconvolgenti come gli atti criminali di Parigi, di Londra e di tante altre realtà del mondo, che continueranno a minare le nostre vite, finché vi saranno l’ignoranza e talvolta la non consapevolezza di quanta complicità ci sia in quelle stragi e di quanto sia urgente una presa di coscienza delle responsabilità sociali e individuali.
L’architetto turco Guvenc Ozel si è chiesto se la sola forza del pensiero e le onde cerebrali siano capaci di spostare i muri di una stanza. Noi dovremmo chiederci, invece, se saremo capaci un giorno di abbattere quei muri cerebrali che sono alla base di quella miscela esplosiva che tanta violenza produce.